Politica

Gianfranco si smarchi pure, ma senza ossessioni

Per il presidente della Camera è legittimo differenziarsi dal premier. Può aprire dibattiti utili. L'ex leader di An lodato da un prof che snobba Schifani: in quella scuola non manderei mio figlio

Caro Direttore,
forse sbaglio, ma ho l’impressione che ogniqualvolta il presidente della Camera prenda la parola, nelle circostanze più diverse, vi sia nel suo pensiero il desiderio di prendere le distanze dal modello politico rappresentato dal presidente del Consiglio.

Beninteso non c’è nulla di male in questo differenziarsi, distinguersi, precisare, a condizione che non diventi ossessivo, anzi può aprire, come più volte ho riconosciuto, una virtuosa dialettica politica all’interno di grande partito democratico. Nello stesso tempo, tuttavia, per una sorta di reciprocità democratica, può essere permesso anche a me di discutere criticamente le idee e le posizioni dell’onorevole Gianfranco Fini.

L’ultima questione sollevata dal presidente della Camera riguarda la questione del populismo e del valore della leadership in una moderna democrazia dell’alternanza. Chiamato in un liceo della capitale ad una Lectio magistralis, Gianfranco Fini ha rimarcato la differenza che intercorre fra lo statista vero dal semplice populista. Le cronache dei giornali a questo punto annotano: «Nessun nome pronunciato, ma il pensiero di molti è andato a una persona assente». Come se non bastasse, una insegnante dello stesso liceo, a dimostrazione della propria obiettività politica e della considerazione del proprio ruolo educativo, ha concluso in questo modo: «Questo è il motivo per cui ci piace Fini e non inviterò Schifani, che invece non ha nulla da dire e sarebbe il megafono del governo». Personalmente non avrei piacere che mio figlio frequentasse una scuola dove una insegnante manca del minimo senso critico e del necessario rispetto per le idee politiche di tutti. Ma questa è un’altra questione ancora.

Per tornare alla questione sollevata dal presidente della Camera, è opportuno sottolineare come il populismo sia una categoria da tempo al centro dell’analisi politica della sinistra, che considera Silvio Berlusconi un populista e i suoi successi la diretta conseguenza di un populismo interpretato nella sua massima espressione. Proprio in questi giorni, Goffredo Bettini del Pd ha bollato la politica del Pdl come una forma di «populismo mediatico», mentre quella della Lega come un «populismo identitario». In questo modo la sinistra trova delle parole confortanti per spiegare la propria sconfitta, senza in realtà capire nulla - proprio nulla - di quanto è accaduto. La sinistra vede il nostro Paese «avvitato in una spirale di inefficienza e decadimento morale, azzannato da mille corporativismi, egoismi e prepotenze». Il populismo della destra è considerato, in questo quadro fosco e disperante, come la forma politica vincente, anche se degradata, che corrisponde perfettamente alla natura corrotta della società italiana. In questo modo, la sinistra può continuare a ritenersi migliore, investita comunque di una missione e di una caratura morale e politica indipendente dalle vicissitudini reali, e soprattutto può esimersi dal dovere di fare seriamente i conti con la realtà del Paese e con le esigenze autentiche dei cittadini, derubricate a istinti irrazionali, ad un volgare populismo, a spirito del popolo, per riprendere la domanda rivolta a Fini da un giovane studente.
Spostando il discorso sul piano politico, il presidente della Camera è ricorso ad una metafora per illustrare il suo pensiero. «Se io inseguissi la pancia del popolo - ha sostenuto Fini - prenderei certo un sacco di voti ma non sarei un leader. È sulla lunga distanza che si vede lo statista vero dal semplice populista...». Poste così le cose è difficile dare torto al presidente della Camera. È innegabile che non basta seguire pedissequamente ciò che vuole il popolo per essere un vero leader, ma è altrettanto vero che un vero leader non può distaccarsi, non può divorziare dal popolo, dalla sua volontà, dalle sue aspettative, dalle sue speranze. L’intellettuale, l’ideologo lo può fare, separarsi dalla realtà, separarsi dal popolo, non il politico, tanto meno lo statista vero, che oltretutto sa che la voce del popolo non è ingannevole, non è irrazionale, ma è fondata su un innato buon senso, su un solido riferimento ai propri interessi e spesso al bene comune.

Il vero leader perciò è chi sa diventare una buona guida del popolo, che non si distacca troppo dal popolo ma ne sa accompagnare con prudenza le virtù migliori, nell’ambito di un piano di graduale miglioramento e di umanizzazione della società.

I risultati concreti che un leader politico consegue, a partire dal consenso che ottiene democraticamente dal popolo, sono la prova migliore e la migliore garanzia del suo ruolo positivo nella società e nella storia.

Questo a me sembra il modo più corretto di leggere la parabola politica e l’esperienza umana del presidente Silvio Berlusconi.

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