Cultura e Spettacoli

Govoni, il lato elettrico del futurismo

Dopo quasi un secolo tornano i versi più geniali e trasgressivi del grande poeta

Govoni, il lato elettrico del futurismo

Verrà (tornerà) mai, l’ora di Corrado Govoni, versificatore straordinariamente prodigo e precoce (tra il 1903 e il 1907 già cinque e cospicue raccolte)? Poco prima della morte - nel 1965, ottantunenne - c’era chi si sentiva in torto nei confronti del «vecchio Govoni». Fu un’ingratitudine il dimenticare l’«ebbrezza che la sua poesia ci comunicò da ragazzi», scrive Leonardo Sinisgalli, esponente fra i più acuti della generazione cosiddetta «ermetica»; e soggiunge: «l’abbiamo perduta», quell’ebbrezza, senza poi ritrovarla «nei poeti che ci sono stati parenti più prossimi». L’amabile testimonianza fissa una situazione di fatto, la graduale estraneità del Novecento a un poeta che pur aveva contribuito con energie fresche a dargli un volto nuovo, a «inaugurarlo». Della lirica govoniana si son compilate antologie - operazione utile, stante la facondia del poeta -, da quella del 1953 fino all’«Oscar» del 2000. Imprese di scarsa risonanza; mentre il più ambizioso e polemico tentativo di rilanciare il nome di Govoni tra i pionieri della poesia novecentesca - lo compì nel 1969 Sanguineti, assegnandogli spazio e ruolo abnormi nel quadro del suo Parnaso novecentesco edito da Einaudi - non si può dire che abbia ricevuto consensi tali da ribaltare le tavole di valori acquisite, secondo le quali per fornire un decente ritratto di Govoni bastano pochi cenni, magari ispirati a sincera simpatia. No, il secolo XX, in poesia, non si è mosso eccentrico e lieve quale sembrava suggerirlo il cammino del Govoni anteguerra.

La Quodlibet ripubblica, a cura di Giuseppe Lasala, le Poesie elettriche (pagg. 176, euro 14). Quinta raccolta di Govoni (1911), è trascorso quasi un secolo da quell’unica edizione. E per San Marco dei Giustiniani, a cura di Francesco Targhetta, è imminente la riproposta del quarto titolo di Govoni poeta, Gli aborti, 1907, anch’esso non più disponibile da quella remotissima data. Le Poesie elettriche sono più di ottanta: alcune lunghissime con oscillazione tra la rima regolare (maggioritaria) e il verso libero; ma si contano anche parecchi sonetti, uno schema nel quale Govoni s’illustrò fin dall’esordio, geniale e trasgressivo nell’esercizio di una forma di per sé tradizionale. Il libro, com’è noto, corrisponde alla stagione futurista di Govoni, e d’altronde non lascia dubbi la dedica: «Ai poeti futuristi F.T. Marinetti Paolo Buzzi Gian Pietro Lucini». Però fin dall’apertura, A Venezia elettrica, è lampante il divario tra la nauseata condanna di un Marinetti, allergico al languore che s’irraggia come un morbo contagioso dalla città lagunare, e la fascinazione che subisce Govoni dallo spettacolo, per esempio, delle «colorazioni elettriche», riflesso dei «muri vaiolosi» nei canali. La «luna esaltante» se la «ingoia» la laguna «come una pastiglia di chinino/ per guarire la sua febbre lancinante»: certo, è futurismo, ma benevolo e ultralirico nelle analogie e similitudini, reiterate con una facoltà di rimodulazione potenzialmente infinita.

Del resto in ciascuna sua raccolta Govoni - eccentrico e leggero - si moltiplica lui stesso in una spudorata volubilità d’intenzioni e di (auto)caratterizzazioni. Nelle Poesie elettriche lo si ascolta, palesemente crepuscolare, attendersi l’impossibile: la visita del morto amico poeta Sergio Corazzini; o piangere un «dolce povero morto» (però si diverte anche a spronare al galoppo il suo paradigmatico spleen, o a modificare i connotati di mestizia di uno strumento per eccellenza crepuscolare, l’organo di Barberia); lo si ammira fiabesco o, «maledetto», trarre dalla musica e dai musicisti occasione per elaborare sonetti estrosi, colmi di macabri orrori; ora elogia la riposata bellezza della terra natìa (sopra Ferrara, a due passi dal Po); ora, screanzato, si avvicina a Palazzeschi inventariando monache e fiori (talvolta in sospetto di lussuria). Etologo dilettante, discorre di salamandre e cataloga lucciole azzurre o verdi; non tutti di suo gusto, fa largo a cuculi, usignoli, galli, pavoni e trampolieri... Le campane gli porgono materia ininterrotta di fantasia. Gran cerimoniere del rito letterario, Govoni: un «poeta galvanico elettrico esagerato», nella brillante definizione di Lasala.

Già: perché accanto agli usignoli, nel suo libro, eccentrico e lieve, si ascoltano cantare le rane.

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