Cultura e Spettacoli

Grand Tour di sensazioni amare lungo la Penisola

«L’Italia è morta, io sono l’Italia», il poema di Aurelio Picca, è un’appassionata lettera d’amore sulle contraddizioni del nostro Paese

Dopo il Carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo e Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, nessun altro aveva scritto un poema sull'Italia. Aurelio Picca con L’Italia è morta, io sono l’Italia torna a questo genere letterario. L’opera, che l’autore ha sovente letto in pubblico riscuotendo successo, è stata stampata in cinquecento esemplari, trentacinque dei quali contengono, fuori testo, una fotografia dipinta da Giovanni Frangi, dall’Edizioni L’Obliquo.
Leggendo questo libro, si viene subito investiti da amore e disperazione. Una materia viva, palpitante, che dalla carne e l’anima dello scrittore passa al mondo; un mondo non solo di persone e di vicende del passato, ma di città, campagne, spiagge e monti, i cui abitanti sembrano più che mai sospesi tra la vita e la morte, anche se la vita predomina in virtù della memoria, che si dimostra superiore alla storia, in quanto ciò che veramente conta e potrà salvarci sono la riscoperta di sentimenti e ideali. Da ogni città, paese o zona balneare dove è andato, Picca coglie umori e impressioni che sembrano giungergli, non tanto per la conoscenza che ne ha, ma in via medianica; un volto, una strada, una chiesa, un colpo di vento, un tramonto gli suscitano sensazioni e immagini. «Nel sangue delle rive ho visto i cadaveri dei fascisti, pure loro morti “invano” in vece dei democristiani./Io che non sono fascista ho pianto amici e nemici/ come fossi vittima e carnefice, come fossi io l’Italia mia fin da bambino/ con indosso la camiciola rossa dei garibaldini», si legge nelle prime pagine, cui segue il ritratto di Giuseppe Garibaldi, corto e tozzo come un fuochista, alla stregua della sua uniforme nel museo di Caprera. Picca avverte l’Italia nella consanguineità, la vede nei tratti somatici che ci accomunano, sosia uno dell’altro. San Pio da Pietrelcina può avere uno dei nostri sguardi o atteggiamenti, così Fabrizio De André, «lo chansonnier dei figli della borghesia». Poi si rammarica che l’Italia sia l'unico Paese al mondo a cui non importa niente del «Genio», ossia della creatività, e non solo degli artisti.
Il poema, coi ritmi di un’ossessione che diviene musica, ci riporta al suo tema di fondo: la morte, non tanto quella rappresentata dai cimiteri e dai feretri, di cui hanno persino l’aspetto alcuni capoluoghi, bensì quella della volontà civile, ossia di quello slancio intellettuale che abbiamo perduto, e che bene hanno rappresentato scrittori e poeti del passato, tra cui Pier Paolo Pasolini che sapeva cogliere, con le sue opere, le contraddizioni di un popolo che poco o niente sembra abbia appreso dalla sua storia. Inutile dire che le pagine di Picca esprimono tensione e sofferenza autentiche e la materia, spesso, pare prendergli la mano. Dono e disgrazia di chi voglia raccontare cose vere. Le stesse che si dicono per esprimere la passione di un amore.

Questo poema altro infatti non è che una lettera d’amore all’Italia.

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