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Disoccupati pagati 2 anni per aspettare una telefonata

Disoccupati pagati 2 anni per aspettare una telefonata

Una volta, nella notte dei tempi, si chiamavano Uffici di collocamento. Oggi hanno un nome più moderno, Centri per l'impiego, e da qualche mese sono, anche se in maniera sotterranea, al centro del dibattito politico. La componente grillina del governo ne ha fatto il perno della riforma più cara a Di Maio e compagni: il reddito di cittadinanza. «Non si tratta di un sussidio», ripete come un mantra il doppio ministro dell'Economia e delle Politiche sociali, che ancora pochi (...)

(...) giorni fa ha spiegato le sue idee al Sole-24 ore: «L'assegno ha la finalità di assicurare un reddito mentre la persona si forma e si attiva per rientrare nel mercato del lavoro. Chi ottiene il reddito di cittadinanza è obbligato a essere preso in carico dai Centri per l'impiego». Questi ultimi, pubblici, hanno da sempre l'incarico di trovare un'occupazione a chi non ce l'ha. «Se chi percepisce il reddito rifiuta tre proposte di lavoro perde il diritto al reddito», conclude Di Maio. Tutto chiaro? All'apparenza sì. Ma c'è un problema: i Centri per l'impiego non funzionano. Travolti da inefficienze, mancanza di risorse, confusione legislativa, il lavoro non lo trovano praticamente a nessuno.

Secondo stime di qualche tempo fa dell'ex Isfol (oggi si chiama Inapp) ente di ricerca per le politiche pubbliche, ogni anno procurano un'occupazione a 32-34mila italiani, una goccia nel mare dei milioni di disoccupati della Penisola. «Pensare a una ricollocazione significativa attraverso i Centri per l'impiego è del tutto illusorio», dichiara netto Francesco Giubileo, collaboratore del sito lavoce.info e ricercatore di Polis Lombardia, ente di ricerca specializzato in politiche sociali. Quando un lavoratore si rivolge a un Cpi la prima cosa che fa è presentare la cosiddetta «dichiarazione di immediata disponibilità». È la certificazione che sta cercando un lavoro, l'atto iniziale di una procedura amministrativa di cui ha bisogno per ottenere l'indennità di disoccupazione, l'esenzione del ticket, o un punteggio più alto nella graduatoria per la casa popolare.

Una volta presentata la Did, il Centro per l'impiego deve fissare un appuntamento per il cosiddetto «patto di presa in carico». Durante questo colloquio vengono prese in considerazione le competenze del lavoratore e si possono impostare le prime azioni per aiutarlo nella ricerca di un lavoro. In Regioni come il Lazio e praticamente in tutto il Meridione (ma non è che in certe aree del Nord le cose vadano molto meglio), il colloquio viene fissato mediamente due anni dopo la dichiarazione di disponibilità.

IL BALLO DEI NUMERI

«Nel corso di questo periodo non si fa nulla per aiutare il lavoratore», commenta Maurizio Del Conte, numero uno dell'Anpal, l'agenzia creata con il Jobs Act per fare da cabina di regia dei centri per l'impiego. «E per di più, ogni giorno che passa, il disoccupato diventa sempre più difficilmente collocabile».

Consapevole dei problemi, qualche mese fa il ministro Di Maio parlò della necessità di uno stanziamento di due miliardi per sostenere l'attività dei Centri pubblici. Ancora la somma non si è materializzata e soprattutto non si è chiarito come il governo intenda spenderla. Oggi il costo per i Centri per l'impiego (più di 500 sedi con 7.900 dipendenti in tutta Italia) è di 750 milioni di euro l'anno. «I due miliardi di cui si è parlato sono una cifra enorme, che permetterebbe perfino di triplicare il personale. Ma poi tutto dipende da che cosa gli si fa fare», dice Luigi Oliveri, commentatore sui temi di politica sociale e dirigente dell'Ente Veneto lavoro. E la necessità di rivedere regole e funzionamento degli uffici viene presentata come una priorità da tutti gli esperti del settore. Il già citato Del Conte la spiega così: «Il problema è avere un piano, un progetto. Se si mette il doppio di benzina in una macchina che non funziona, la macchina continuerà a non funzionare».

Nei giorni scorsi il ministro Di Maio ha convocato proprio i tecnici dell'Anpal a cui è stato chiesto di mettere a punto qualche idea per una riforma in grado di entrare a regime in tempi brevi. Ma le possibilità che il reddito di cittadinanza possa partire dal 2019 offrendo a chi lo riceve concrete prospettive di un reinserimento attraverso i canali pubblici sono praticamente nulle. Perché la malattia degli ex Uffici di collocamento è di quelle gravi.

TUTTI A CASA

Solo negli ultimi anni sono passati dal controllo delle province alle prospettive di statalizzazione; poi, dopo la bocciatura del referendum del 4 dicembre che riportava a livello centrale la competenza in materia di politiche sociali, sono finiti alle Regioni (salvo in Lombardia dove restano alle province). E in tutti i passaggi si sono dovuti ridiscutere finanziamenti e condizioni di operatività. Gli impiegati non solo sono pochi in confronto agli altri Paesi europei, ma anche distribuiti in maniera irrazionale sul territorio. Ben il 22%, per esempio (1.737 su 7.900), sono concentrati in Sicilia, dove i risultati sono ben inferiori alle già non esaltanti medie nazionali.

Secondo una recente indagine dell'Istat solo il 2,4% delle persone reimpiegate nell'ultimo anno dichiara di avere trovato posto grazie ai centri per l'impiego. «La percentuale è molto bassa e le agenzie private pesano solo per un altro 5% o poco più», spiega Oliveri. «Il problema è la opacità del mercato del lavoro in Italia, l'impiego si trova grazie a canali informali. Bisogna spingere le aziende a fare emergere le ricerche del personale».

Il fatto che in Italia i veri uffici del lavoro sono parenti e amici è confermato dalle statistiche: l'87% dei lavoratori senza impiego sceglie subito di rivolgersi a parenti e conoscenti, solo il 24% va in un Centro pubblico per l'impiego e il 15 (i dati sono dell'Istat; vedi anche il grafico in queste pagine) in un'agenzia privata. Tra chi è riuscito a ottenere un risultato, e ha ritrovato un lavoro, il 40,7% dichiara che il successo è proprio merito di parenti e amici, il 30% di un contatto diretto con il datore di lavoro, il 5,2 di un'agenzia privata e, in fondo alla classifica con il già citato 2,4, di un centro per l'impiego.

STOP ALLE COMUNICAZIONI

Al di là questa specificità da tipico familismo italiano gli uffici di collocamento pubblici hanno problemi che pesano come palle al piede. «Le banche dati sono organizzate in alcuni casi a livello provinciale e non comunicano tra di loro», spiega Del Conte. «Se a Como c'è bisogno di un tornitore, a Lecco non vengono a saperlo». Proprio l'Anpal ha avviato un sistema informativo nazionale a cui i nuovi disoccupati presentano le dichiarazioni di immediata disponibilità. «Il problema, però è tutto il pregresso», continua il numero uno dell'Anpal. «Nei singoli archivi abbiamo le posizioni di persone che si sono iscritte magari cinque o sei anni fa e poi non abbiamo più seguito e sentito. Magari hanno deciso di fare la casalinga e il lavoro non lo cercano più, ma noi non lo sappiamo». È questo il motivo per cui in Italia la disoccupazione statistica è diversa da quella amministrativa. In pratica non c'è una banca dati da cui risulti il numero effettivo di chi è senza impiego: l'Istat conduce delle indagini per campione, i Centri per il lavoro non hanno un dato nazionale e, come detto, nei loro sistemi informativi c'è un po' di tutto.

La realtà è che, nonostante il gran parlare di «politiche attive del lavoro», la principale attività di molti tra i Centri per l'impiego è proprio quella degli Uffici di collocamento di una volta: mettere timbri e distribuire certificati per attestare lo stato di disoccupazione.

Gli stessi certificati che tra un po' serviranno per incassare il reddito di cittadinanza.

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