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Ha indagato su 140 delitti con Giovanni Falcone "La giustizia? Una piovra"

Marco Morin è uno dei più autorevoli periti balistici al mondo. Ha fatto scarcerare un inglese condannato all’ergastolo per l’omicidio di Jill Dando, conduttrice della Bbc. Ma ora rifugge i tribunali italiani. "Alla fine ha fatto fuori anche me: ero diventato un pericolo per la mafia"

Ha indagato su 140 delitti con Giovanni Falcone 
"La giustizia? Una piovra"

È uno dei più autorevoli esperti - appena una dozzina in tutto il mondo - di balistica, esplosivistica e residui dello sparo. Quindi se il professor Marco Morin dice che nel nostro Paese le sentenze dei processi per omicidi, attentati e altri reati in cui c’entrano le armi da fuoco o le bombe sono quasi sempre frutto di investigazioni fatte alla carlona, c’è da preoccuparsi. Se poi la conferma arriva da Edoardo Mori, che oltre a essere giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bolzano è anche titolare del sito Earmi.it «dedicato a coloro che amano lo studio delle armi e della balistica e sono interessati ai problemi giuridici connessi», c’è da spaventarsi. Scrive Mori, osannando, e non certo per consonanza anagrafica, una relazione di Morin: «È esemplare nel dimostrare quale deve essere la buona preparazione di un perito, ben informato su tutta la più recente letteratura scientifica, capace di comprenderla nelle lingue straniere e capace di usare strumenti di analisi. Tutte cose che non si possono pretendere da un poliziotto o un carabiniere, addestrati alla bell’e meglio in base “alla prassi dell’ufficio” o “a ciò che si è sempre fatto”».
Ecco, il professor Morin nella sua vita non ha mai fatto cose che si sono sempre fatte. Pochi giorni fa, per dire, alle 10 di sera s’è tuffato in pigiama nel Rio di San Tomà che circonda la sua casa di Venezia, nella quale abitò fino alla morte la pianista Luisa Baccara, amante di Gabriele D’Annunzio, e ha recuperato dalle acque del canale il suo Momi Due, un soriano rosso, che vi stava affogando. Il coraggio, insieme con la passione per il mestiere delle armi, l’ha ereditato dagli antenati, gente di mare d’origine francese che si mise al servizio della Serenissima prima e degli Asburgo poi; in particolare dal nonno Franz, capitano di vascello, comandante del cacciatorpediniere austriaco Balaton che nel dicembre del 1915 affondò il sommergibile francese Monge, e dal padre Federico, che a 10 anni già frequentava l’accademia militare Teresiana di Wiener Neustadt.
Sicuro indice di sprezzo del pericolo, oltre che di elevata competenza professionale, fu il fatto di prestarsi come consulente di fiducia del compianto Giovanni Falcone per le indagini su 140 delitti di mafia, a cominciare dall’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro. Morin s’è occupato anche dei casi Aldo Moro, Luigi Calabresi e Marta Russo, delle efferatezze del mostro di Firenze, delle stragi di Peteano, Bologna e Ustica. Ma oggi guai a dargli del perito balistico: «Faccio solo consulenze di parte. Non voglio più aver nulla a che fare con magistrati e tribunali. Lo vede questo tomo di 637 pagine? È il manuale che i giudici federali statunitensi devono studiarsi per essere in grado di valutare la bontà delle prove scientifiche portate alla loro attenzione. Da noi? Prendono per oro colato qualsiasi bischerata. Basta che provenga dai laboratori istituzionali».
Fino a pochi anni fa il professor Morin era l’anima del più attrezzato di questi laboratori, il Centro indagini criminali, costruito a propria immagine e somiglianza presso la Procura di Venezia. A un certo punto gli impedirono di accedervi, nonostante le rimostranze di Falcone. «Come? Facendo passare me per un criminale», allarga le braccia. Perciò il super esperto oggi preferisce portare un contributo di verità, spesso senza farsi nemmeno pagare, nelle aule di giustizia degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, persino dell’Australia. Dove la sua parola vale quanto quella della Cassazione in Italia.
Memorabile, a tal proposito, è il ribaltamento del verdetto che da otto anni teneva nelle prigioni di sua maestà britannica un balordo quarantenne, Barry George, già processato tre volte per stupro, condannato all’ergastolo per aver assassinato sulla porta di casa con un’unica pistolettata dietro l’orecchio sinistro una famosa giornalista della Bbc, Jill Dando, conduttrice del popolare programma Crimewatch, una specie di Chi l’ha visto? a tinte fosche. Il professor Morin ha svolto (gratis) una controperizia delle sue. E i giudici sono stati costretti a riaprire il processo e ad assolvere il detenuto.
Non è un po’ debole l’elemento con cui ha fatto scarcerare George? Una particella di alluminio, bario e piombo trovatagli in tasca, che per la scientifica inglese apparteneva alla pallottola che uccise la Dando, mentre secondo lei vi era una probabilità su 10 milioni che fosse collegata al delitto.
«La particella poteva essere qualsiasi cosa, per esempio un residuo di combustione uscito da un inceneritore. Indagini di questo genere offrono soltanto indizi, mai prove. Invece l’indizio fu preso per una prova scientifica. Ma non si condanna un imputato all’ergastolo in base a un indizio».
Perché da Londra sono venuti a cercare proprio lei?
«Un reporter della Bbc, Raphael Rowe, collega della vittima, non era convinto della colpevolezza di George. Io non volevo occuparmi del caso, perché l’indagine era stata condotta da un mio caro amico, Robin Keeley, ufficiale anziano di Scotland Yard. Molto di ciò che so l’ho imparato da lui. Ho pensato: impossibile che Robin abbia lavorato male. Dopo un anno di insistenze, ho accettato di farmi mandare dalla Bbc il faldone del processo. E da lì mi sono subito accorto che Keeley, correttamente, non aveva mai detto che la particella trovata in tasca al presunto assassino “era” un residuo dello sparo, bensì che “poteva” esserlo. Una bella differenza».
Come mai non collabora più con la giustizia italiana?
«Mi hanno fatto fuori professionalmente. Mi risulta che l’ordine sia partito da Palermo. Me l’hanno confidato alcuni alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri. I miei rapporti con Falcone erano strettissimi, si fidava soltanto di me. Una volta, a cena qui a casa mia, dove ora è seduto lei, mi raccontò d’aver scoperto un traffico di droga fra Bulgaria e Italia favorito da personaggi legati al Pci: gli stupefacenti finivano in mano alla mafia. Mi mangiai due diottrie al microscopio per esaminare i proiettili dei delitti di Cosa nostra e scoprii che a sparare erano sempre le stesse Smith & Wesson calibro 38. Le mie perizie balistiche avevano consentito a Falcone di risalire a insospettabili connessioni fra le cosche di Palermo e Catania. Per la mafia ero diventato un pericolo».
In che modo l’hanno fatta fuori?
«Con l’accusa di peculato. Mi sarei appropriato di 30 o 40 cartucce da caccia del costo di 100, massimo 150 lire l’una, pensi un po’. Se a Venezia ci fossero state le pecore, m’avrebbero accusato di abigeato. Ma l’accusa più grave fu quella formulata dal pubblico ministero Felice Casson, oggi senatore del Partito democratico, che m’incolpava d’aver fatto sparire dell’esplosivo. Dopodiché saltò fuori un documento, controfirmato dallo stesso Casson, dal quale risultava che quell’esplosivo era stato consegnato alla direzione di artiglieria. Presentai un esposto al Consiglio superiore della magistratura e l’accusa cadde subito».
Però fu rinviato a giudizio dallo stesso Casson per aver depistato le indagini sulla strage di Peteano.
«Tra i residui dello scoppio che aveva dilaniato tre carabinieri era stata trovata una miscela di pentrite e T4 che poteva assomigliare al Semtex H, un esplosivo cecoslovacco. Si disse che m’ero inventato la presenza del Semtex H per accreditare un’inesistente pista dell’Est, in modo da proteggere gli attentatori neofascisti. Quello che non si disse è che fui io a scoprire che il leader libico Gheddafi aveva rifornito di Semtex H i terroristi di ogni colore, Brigate rosse comprese, al fine di destabilizzare l’Italia. E comunque la provenienza di un esplosivo non fornisce alcun indizio circa la matrice politica di un attentato. Ipotesi astratta: se a Peteano si fosse mossa la Cia, è evidente che non avrebbe certo impiegato esplosivo americano bensì dell’Est, così come il Kgb avrebbe fatto l’esatto contrario».
È stato scritto che lei militava in Ordine nuovo.
«Falso. Sono un liberale da sempre. Le pare che se fossi un neonazista avrei svolto consulenze di parte a favore di Adriano Sofri, come pure dei brigatisti rossi Valerio Morucci e Adriana Faranda, trovati in possesso della mitraglietta Skorpion utilizzata per assassinare Aldo Moro?».
Non si può dire che a Sofri sia stato di grande aiuto...
«Dovevo dimostrare che nell’omicidio Calabresi furono usate due diverse armi. Questo avrebbe invalidato la confessione del pentito Leonardo Marino, secondo il quale il sicario era uno solo, Ovidio Bompressi. Peccato che nel frattempo il tribunale avesse ordinato la distruzione dell’unica prova: i due proiettili che uccisero il commissario. S’è mai visto buttare via due corpi di reato di quelle dimensioni con la giustificazione che negli uffici giudiziari manca il posto dove custodirli? In un Paese civile, in mancanza dei reperti, non si sarebbe neppure celebrato il processo. Ciò nonostante, dalle foto accertai che le rigature sui proiettili avevano ampiezze diverse. Il perito d’ufficio, Domenico Salza, direttore del banco di prova di Gardone Valtrompia, proruppe in un “orpo, hai ragione!”, registrato dalle telecamere di Raitre. Mai andato in onda».
L’hanno considerata amico dei peggiori estremisti di destra, da Carlo Maria Maggi a Marcello Soffiati, coinvolti nelle indagini su numerose stragi.
«Alcuni li ho conosciuti al tiro a segno. Stiamo parlando degli Anni 60 e 70, quando detenere un residuato bellico comportava al massimo una multa. Era ovvio, per un appassionato di balistica, frequentare chi era in possesso di pezzi pregevoli, come una mitragliatrice tedesca Mg34. Inoffensiva, visto che non esisteva più il munizionamento».
Secondo Casson faceva parte di Gladio.
«Non ho avuto questo onore. Magari mi avessero chiesto di aderire!».
Eppure è stata pubblicata anche la sua sigla di appartenenza: 0433.
«Ma lei crede ancora a quello che scrivono i giornalisti? Guardi che una volta presi in castagna persino Indro Montanelli. Aveva firmato un editoriale sulla revisione del processo a Sacco e Vanzetti, affidata a una commissione a suo dire presieduta “dall’abate Lowell”. La conclusione di Montanelli era: che cosa mai dovremmo aspettarci da un prete? Il fatto è che si trattava non di un abate bensì di un Abbott, nome di battesimo di Abbott Lowell, presidente della Harvard University. Ma siccome su Sacco e Vanzetti il fondatore del Giornale era innocentista, tutto faceva brodo per la polemica».
Casson sostenne che lei lavorava per il servizio segreto militare ma che la sua scheda fu fatta sparire dagli archivi.
«Il Sismi aveva bisogno di un esperto balistico e domandò al procuratore aggiunto Elio Naso se io fossi una persona seria. Analoga richiesta fu fatta a Naso dal giudice Falcone. Però, mentre Falcone mi chiamò subito, il Sismi non si fece mai vivo, non saprei dire se per fortuna o per disgrazia. Naso è il magistrato che chiese alla Camera l’autorizzazione a procedere contro Giorgio Almirante. Perché mai avrebbe dovuto favorirmi se fossi stato un neofascista?».
Cogne, Garlasco, Perugia, e prim’ancora l’Olgiata e via Poma: tanti toponimi per indicare altrettanti delitti in cui dalla guerra di perizie e controperizie non emerge mai una verità credibile. Di chi è la colpa?
«Di chi compie le prime indagini. Com’è possibile che nel caso di Meredith Kercher siano state trovate tracce di sangue su una borsa a tracolla a quattro mesi e mezzo dal delitto? Nella mia carriera ho visto cose da far paura. Prenda la tragedia del Moby Prince, che costò la vita a 140 persone. Il gabinetto di polizia scientifica della Criminalpol individuò sul traghetto tracce di ben sette diversi tipi di esplosivo».
E invece?
«A bordo non ve n’era nemmeno uno, di esplosivo! Così come non vi erano residui dello sparo sul davanzale della Sapienza di Roma, da dove sarebbe partito il colpo che uccise la studentessa Marta Russo. Peggio ancora fu quello che accertai come consulente di Pietro Pacciani. I periti di fiducia del giudice dovevano rilevare eventuali tracce di polvere da sparo su un baby-doll e su un pannolino da neonato che avrebbero avvolto armi da fuoco usate dal mostro di Firenze. Conclusero per la presenza di antimonio, elemento chimico attribuito alla miscela d’innesco delle cartucce Winchester calibro 22 Long Rifle. Ebbene, chiunque s’interessi seriamente di munizioni sa che quell’innesco non contiene antimonio. Appare grave che dei periti d’ufficio abbiano disposto la ricerca strumentale dell’antimonio in cartucce che ne sono notoriamente prive. Ma ancora più grave è che l’antimonio sia stato addirittura individuato negli inneschi esaminati. Risultato: Pacciani assolto, giustizia svergognata».
Che conclusioni devo trarne?
«Domina la pressoché generale ignoranza della criminalistica, di quel complesso di discipline che si definiscono scienze forensi. Il giudice non è onnisciente, deve per forza rivolgersi al consulente tecnico. Ma se il secondo è più ignorante del primo? Tutto ciò rende aleatoria la giustizia penale in Italia. Adesso lei sa quali rischi corre il cittadino innocente quando viene afferrato dai tentacoli di questa piovra. Se sarà fortunato, potrà riavere la libertà a prezzo della salute, della rovina economica, dell’onore».
(474. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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