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"Ho portato il jazz in Borsa. La cultura è un affare"

Avvocato di professione, Paolo Colucci ha fondato il "Blue Note", locale di culto delle notti milanesi. Poi l'ha quotato: "Siamo una mosca bianca, vogliamo produrre arte e profitti"

"Ho portato il jazz in Borsa. La cultura è un affare"

Ognuno realizza i suoi sogni come può. C'è chi è appassionato di jazz e si compra i dischi e chi si compra un intero jazz club a Milano. Prestigioso se si chiama Blue Note (legato al noto, omonimo locale di New York) e che si è inserito di prepotenza nel pantheon dei migliori locali jazz d'Europa. Tutto questo grazie alla passione e all'intraprendenza dell'avvocato internazionale Paolo Colucci, che ha trasformato il suo sogno in una realtà che anima le notti milanesi.

Ci vuole un grande spirito d'iniziativa per diventare boss del «Blue Note».

«Ci vuole anche un filo di incoscienza e di follia, ma io sono il presidente non operativo - al mio fianco ho due eccezionali coordinatori artistici come Daniele Genovese e Fabio Mittino, proveniente dalla Barley Arts - e ora mi godo i frutti di un lavoro iniziato avventurosamente nel 2003».

Perché avventurosamente?

«Siamo partiti fra mille difficoltà, anche burocratiche, anche se il nostro accordo con il Blue Note di New York, che non è solo un marchio ma una partnership vera e propria, ci ha aiutato. Blue Note nel mondo è un nome che significa musica e intrattenimento sofisticato e di alta qualità».

Quindi come siete partiti?

«Combattendo contro mille piccoli problemi. Abbiamo inaugurato il 19 marzo 2003 ma i lavori non erano ancora finiti. Il giorno prima c'erano ancora gli operai con i trabattelli e il club sembrava un cantiere. All'inaugurazione, una settimana con protagonista assoluto Chick Corea, il club era ancora per aria, ma da lì usciva dello splendido jazz d'autore. Corea fu un enorme successo».

Ma l'idea del Blue Note italiano come è nata?

«Da giovane, nel 1984-1985, lavoravo a New York in un grande studio legale come avvocato d'affari internazionale e andavo tutte le sere ad ascoltare il jazz. Una sera venne a trovarmi mia madre e la portai al Blue Note per ascoltare Dizzy Gillespie, l'ultimo dei grandi. Io avevo un tavolo in prima fila e, alla fine del concerto, invitai Gillespie a bere una birra. Un uomo magnetico e simpaticissimo. Quell'esperienza mi segnò profondamente e da allora misi un sogno nel cassetto: un giorno avrei avuto un jazz club tutto mio come giocattolo».

Poi però l'idea bisogna realizzarla.

«Infatti sono trascorsi quasi vent'anni da quel periodo. Poi, dopo il 2000, quando finii di lavorare all'Opa delle Generali sull'Ina (un lavoro mostruoso), decisi di prendere qualche mese di riposo e di cominciare a dare corpo ai miei sogni. Partì tutto da lì e, le assicuro, non è stato semplice perché in Italia non c'è la cultura del club. Dopo il Capolinea la gente si è abituata ad un altro tipo di intrattenimento e il jazz era passato un po' di moda. Noi abbiamo contribuito a rilanciarlo».

Come va il locale?

«Per noi parlano i numeri e devo dire che le cose vanno bene. Lo spirito internazionale del locale piace molto alla gente, non solo agli appassionati di jazz, ma anche a coloro che, incuriositi magari dalla cena o dai cocktail, vengono per scoprire un determinato artista o semplicemente per curiosità e poi tornano».

Insomma va tutto a gonfie vele?

«Beh, dietro a tutto questo c'è un lavoro spaventoso. Cerchiamo di coniugare la qualità di un teatro con l'atmosfera di un club. Voi non sapete quanto bisogna lavorare per programmare gli spettacoli e ingaggiare gli artisti per tenere uno, o addirittura due concerti tutte le sere (tranne il lunedì). Il secondo spettacolo dovrebbe prendere più piede. Allo show che inizia alle 23 o alle 23.30 vengono gli appassionati, quelli che non vogliono essere distratti dalla cena ma sono pochi. Milano è la città del lavoro e la gente non ama fare troppo tardi. Noi cerchiamo di incentivare applicando sconti e formule più favorevoli, ma il secondo spettacolo spesso è il nostro punto più debole».

Altre difficoltà?

«La ristorazione non è stata una scelta semplice. Difficile gestire 120 coperti tutti insieme. Per mia esperienza nei jazz club si mangia mediamente bene ma c'è una scelta limitata. Noi abbiamo un menù molto vario e una qualità - a quanto dicono - superiore alla media per quanto riguarda il cibo e i vini».

Come scegliete gli artisti?

«Siamo intermediari tra il pubblico e l'artista. Siamo il tempio del jazz ma siamo anche molto trasversali. Da noi ci sono anche concerti d'autore, che richiamano un vasto pubblico, come quelli di Gino Paoli, Patty Pravo, Malika Ayane. Poi c'è il meglio del jazz internazionale, che è sempre felice di esibirsi qui da noi. Certo a volte abbiamo avuto artisti particolarmente problematici: come il grande Gato Barbieri, che una sera non ha fatto altro che smontare e rimontare il suo sax, o Jimmy Smith, che sul palco non era nel pieno delle sue facoltà mentali, se capisce quello che voglio dire. La cosa che mi colpisce di più è l'umiltà e l'energia di certi artisti di 80-90 anni come Lee Konitz o il bluesman James Cotton, che non riesce quasi più a parlare ma suona l'armonica come un diavolo».

Qual è il maggior pregio del «Blue Note»?

«Quello di non essere un locale di moda o un locale che segue una tendenza. È un luogo dove si può passare una serata completa ascoltando la propria musica preferita. Rivendico il nostro ruolo di divulgatori del buon jazz e di una tradizione culturale che, nata afroamericana, oggi si sviluppa in tutto il mondo, soprattutto in Italia e nell'Europa del Nord».

Che rapporti avete con le istituzioni?

«È una mia vecchia battaglia, per le istituzioni siamo praticamente trasparenti. Siamo una società completamente privata che vive esclusivamente di mercato ma le imprese culturali non piacciono. Speravamo cambiasse qualcosa con il bonus giovani. Noi andiamo avanti per la nostra strada, ogni tanto ci capitano ostacoli che sarebbero impensabili in altre capitali europee. Il Comune a Milano non ha ancora risolto il problema del fiume Seveso e l'anno scorso abbiamo dovuto annullare il concerto dei Level 42 - tutto esaurito - perché le vie della città e il locale erano allagati a causa della piena del fiume. Per incentivare il pubblico abbiamo molte proposte: prezzi speciali per gli under 25 e per gli over 60, convenzioni con aziende, università e scuole di musica e tante altre iniziative».

Voi siete anche quotati in Borsa.

«Siamo entrati il 22 luglio 2014 ed è la prima volta che un'impresa di intrattenimento culturale si quota in Borsa e abbiamo tanti piccoli azionisti, anche se il nostro scopo non è fare profitti ma produrre cultura ce la caviamo bene. Le nostre operazioni sono assolutamente trasparenti, siamo piccoli ma siamo anche una mosca bianca nel panorama degli affari. Per festeggiare il nostro debutto in Borsa abbiamo organizzato un concerto per strada, in piazza Affari, con una band in stile New Orleans. È stato un momento divertentissimo e un modo per festeggiare un evento così importante in musica. I nostri azionisti sono diventati fedelissimi del locale e spesso noi li ricambiamo anche con dividendi extra quali voucher, buoni sconto, iniziative varie».

Qual è il futuro del «Blue Note»?

«Espanderci sempre più nel mondo della comunicazione e dell'intrattenimento. Cerchiamo sponsor per aumentare gli eventi commerciali e vorremmo aprirci a nuovi campi, organizzare più masterclass con gli artisti, fare più education appoggiandoci a realtà locali e diversificando. Sarebbe bello anche organizzare una tv che si dedichi a tutte le tematiche legate al jazz e dintorni. I Festival organizzati d'estate al Forte di Bard sono un esempio dei nostri progetti. Lì abbiamo portato artisti internazionali come Burt Bacharach, e ora partiamo con gli appuntamenti (una volta al mese dal 5 giugno) col Blue Note Sunday Music Village, serate di jazz internazionale. Ora abbiamo fatto un nuovo passo importante».

Quale?

«Abbiamo appena annunciato una fusione con la società Casta Diva che rappresenta un salto di qualità per il nostro marchio, portandoci anche nel campo del materiale audiovisivo. Il futuro sta nella diversificazione dei prodotti e nel giusto rapporto tra qualità e redditività».

Quali sono i musicisti preferiti da Paolo Colucci?

«Amo il jazz in tutte le sue forme e manifestazioni.

Soprattutto ho seguito l'evoluzione di questa musica, passando - ad esempio - dalla tromba hot di Louis Armstrong a quella be bop e moderna di Dizzy Gillespie, che rimane uno dei miei idoli».

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