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"Ho ucciso la malaria con la zanzara Ogm"

Comasco, insegna in California e ha scoperto come si può sconfiggere la malattia: "È successo tutto un po' per caso, il merito è dei moscerini"

"Ho ucciso la malaria con la zanzara Ogm"

Il killer della malaria ha il volto gentile di Valentino Gantz. È lui, a 32 anni, il biologo che ha avuto l'intuizione che potrebbe debellare per sempre la devastante malattia. Come? Con un «trucco di laboratorio»: una modifica del gene della zanzara portatrice del virus tale da creare una specie transgenica e inoffensiva per l'uomo. La scoperta sta facendo il giro del mondo: Gantz, natali comaschi ma ormai di casa alla University of California di San Diego, era tra i più giovani relatori del forum High Tech for Peace, un appuntamento che ha radunato scienziati da tutto il mondo e che si è tenuto qualche settimana fa a Lugano. «Una grande emozione, un'atmosfera bellissima », racconta Gantz. È uno dei pochi superlativi usati durante l'intervista da questo giovane scienziato che ha lo stile sobrio di chi è abituato a usare i guanti di laboratorio, ad avere pazienza, a studiare.

Padre tedesco e madre comasca, Gantz è nipote di quell'Alvaro Molteni che fu pittore e campione dell'astrattismo lombardo e di cui in questi giorni il Museo della Seta di Como espone alcuni disegni pensati per i tessuti. È un vero «figlio d'arte»: «Nel senso che tutti, nella mia famiglia, sono artisti e creativi: io sono la pecora nera». Studi al liceo Giovio di Como, Università prima a Milano poi a Bologna, da otto anni Gantz vive e lavora in America, dove è uno dei biotecnologi da tenere d'occhio: le sue ricerche sono state pubblicate con ampia eco sul Washington Post e lo scorso marzo lo studioso si è aggiudicato il primo premio Biology Founding Faculty Award for Graduate Excellence. Insieme a Ethan Bier, Gantz ha ideato un metodo che permette di introdurre in un gruppo di zanzare un «kit genetico» che le rende resistenti al parassita Plasmodium, responsabile della malaria. Il processo rende le zanzare inoffensive e refrattarie alla malattia. È un passo in avanti decisivo per bloccare la diffusione del virus e presto si vorrebbe testare in laboratorio la portata della scoperta anche per altre malattie come il dengue o la zika.

Dottor Gantz, come le è venuta l'idea?

«In modo quasi casuale: stavo cercando di generare delle mutazioni visibili sui moscerini della frutta ed ero interessato a trovare un metodo per diffondere in una popolazione animale una caratteristica genetica voluta. Studiavo dunque il meccanismo e solo dopo ho pensato di applicarlo alle zanzare. Il risultato della scoperta non è tutto merito mio: fin dagli anni Ottanta si era capito che per debellare la malaria bisognava lavorare non solo su pesticidi o azioni esterne, ma tentare un approccio legato alla genetica degli insetti responsabili della sua diffusione. Ho lavorato in stretta collaborazione con il laboratorio di Anthony James a Irvine: la sua esperienza è stata fondamentale. La nostra scoperta sarebbe stata impossibile senza la collaborazione tra scienziati».

Quanto lavoro le è costato tutto il progetto?

«Certo è stato un periodo molto intenso della mia vita. Abbiamo lavorato di continuo per un anno. Poi servono anche dei momenti di pausa: a volte serve fermarsi per capire come affrontare il problema. Ricordo che ho finito di scrivere la stesura del paper ufficiale della scoperta poco prima di andare alla festa di Capodanno del 2014, a novembre dell'anno dopo la nostra scoperta era già pubblicata».

Quando è nata la passione per la biologia?

«So che sembra strano dirlo, ma è nata tra i banchi di scuola. Tutto merito di una docente di scienze del mio liceo. Era una supplente, per la verità. Si chiamava Giovanna Patrizio: devo assolutamente ringraziarla. È merito suo se ho preso questa strada. Entrava in classe e insegnava, in modo chiaro e accattivante, i fondamenti della tecnologia molecolare, un argomento che di solito non si affronta alle superiori. Aveva un PhD americano ed era molto preparata: in sei mesi aveva finito il programma scolastico di un anno, il resto del tempo lo ha impiegato a proporci conoscenze nuove».

E voi come reagivate?

«Bene. Eravamo una classe sperimentale: rispetto ad altre scuole ricevevamo molti stimoli in più. È anche merito del mio prof di inglese se sono riuscito ad affrontare bene il mio primo periodo in America, durante la tesi».

Ecco, veniamo all'Università: com'è andata?

«Dopo il diploma mi sono inscritto alla Statale di Milano, ma il corso in biotecnologia era avviato solo da un anno e ho preferito spostarmi a Bologna. Come città mi è piaciuta subito: c'era un bel clima».

Non c'erano troppe distrazioni per studiare bene?

«Certo, ma il livello dei docenti era ottimo e mi sono sempre molto impegnato. Ricordo bene che tutti i prof mi dicevano che il futuro della ricerca non poteva essere in Italia».

E così ha preso un biglietto per San Diego.

«È stata una decisione naturale. Avevo quasi 23 anni, dovevo fare la tesi: sono partito per l'America con l'idea di migliorare l'inglese e fare una bella esperienza. Sono tornato solo per discutere la tesi in Italia ma per la specializzazione sono voluto tornare lì, a San Diego».

Perché?

«A San Diego si è formata negli anni una comunità scientifica e tecnologica molto aperta, il clima è collaborativo, molto più che altrove. Ho capito presto che volevo fare il ricercatore e che per poter far bene il mio lavoro dovevo andare dove c'era la reale possibilità di ottenere finanziamenti adeguati»

Difficile adattarsi alla vita americana?

«Un iniziale shock culturale credo sia normale: l'America è molto diversa dall'Europa, ma a dire il vero io non sento di appartenere a un unico posto. Sono nato a Como, sono italiano, ma non la mia identità non si esaurisce qui. Credo sia merito anche dei miei genitori».

Perché?

«Mia madre Barbara è di Como, mio padre Michael è tedesco, viene da Celle, un paesino vicino ad Hannover: ho sempre vissuto in bilico tra due culture. E fin da piccolo sono stato abituato a viaggiare molto. Credo che questa abitudine influenzi molto la capacità di guardare gli altri e di adattarsi. Dovrebbe essere uno dei compiti dei genitori quello di educare i figli, dai 5 ai 15 anni, a viaggiare».

Si sente cambiato da quando vive in America?

«Di certo non sarei quello che sono se facessi un altro lavoro, e da un'altra parte. Da otto anni San Diego è la mia casa, l'inglese sta diventando ormai la mia prima lingua».

Si considera un cervello in fuga?

«Tecnicamente sì, per come lo intendete voi sui giornali. Ma non amo molto la definizione: dietro ognuno c'è una storia diversa».

E come si definirebbe?

«Un ricercatore appassionato, nato in Italia, che lavora bene all'estero e che non ha intenzione di tornare».

Nemmeno per le vacanze?

(ride) «Per quelle sì, sempre. E per vedere la mia famiglia, ovviamente».

E con qualcuno dei suoi colleghi italiani si confronta?

«Uno dei problemi fondamentali dei ricercatori come me che operano in Italia è che quando i soldi sono pochi la competizione è estrema».

E questo secondo lei è un male? La competizione non dovrebbe essere da stimolo per fare sempre meglio?

«La competizione è una buona cosa ma non deve essere eccessiva, specie nella scienza: quando si compie una ricerca complessa l'aspetto della collaborazione tra diversi istituti e studiosi è fondamentale. È grazie al lavoro tra diversi team che siamo arrivati alla nostra scoperta. Un altro problema in Italia è poi la carenza di mezzi, che non ti permette nemmeno di avviare un progetto. Una cosa frustrante».

L'ha mai provata?

«Per la poca esperienza che ho avuto in Italia posso dire di aver incontrato in università a Bologna professori con idee brillanti ma con poco denaro a disposizione per investire sui progetti di ricerca. E va anche detto che quel poco denaro non veniva dallo Stato, ma dall'estero. In ogni caso, si parla di livelli incomparabili con gli standard cui siamo abituati in America».

Dunque è impossibile fare lo scienziato in Italia?

«Sono convinto che qui esiste un ampio potenziale scientifico. E l'istruzione liceale e universitaria è tra le migliori al mondo. Tuttavia, nel mio settore così come in molti altri campi di ricerca scientifica, se dopo la laurea vuoi lavorare o vuoi fare un phD e dedicarti a una ricerca che richiede una strumentazione complessa non puoi farlo in Italia.

Mancano fondi e mezzi, almeno per ora».

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