Controcultura

Hopper? È italiano. Si chiamava Ziveri

Grande realista, assolutamente inattuale, lontano da ogni ideologia. Pittore della Scuola Romana, segnò gli anni '30 e '40 del Novecento

Hopper? È italiano. Si chiamava Ziveri

C'era fervore, più di trent'anni fa, a Roma, intorno alla Scuola romana. Per intendere il conflitto, tra il mondo egemone delle avanguardie e alcuni artisti sopravvissuti e dimenticati, bisogna risalire agli anni '70, tenendo come spartiacque l'improvvisa riesumazione di Balthus alla Biennale di Venezia del 1980, grazie al direttore delle arti visive, Luigi Carluccio. Qualche anno prima, nel '76, ad Arte fiera di Bologna Renato Barilli, davanti a un uomo elegante, con una giacca di tweed, sopracciglia ritte verso l'alto e il fare di un antico gentiluomo, disse a noi più giovani: «Vedete? Quello è Luigi Carluccio. Non salutatelo: si occupa di arte commerciale».

Intendeva: figurativa.D'altra parte due anni dopo, iniziando a scrivere per L'Europeo la rubrica d'arte «Il bello e il brutto», mi trovai nella stessa pagina con Federico Zeri e Antonello Trombadori. Del primo condividevo tutto. Del secondo non capivo l'inclinazione e la predilezione per artisti sconosciuti (e viventi), al di fuori di ogni categoria e gruppo. Antonello era un uomo straordinario e, ormai avanti negli anni (era nato nel 1917), parlava dei «suoi» contemporanei: Pasquarosa, Katy Castellucci, Alberto Ziveri. Mi sembravano così fuori tempo e luogo che chiamavo il caporedattore della sezione cultura, Pasquale Chessa, per chiedere ragione di tali scelte che mi apparivano marginali e capricciose, rispetto all'idea corrente e prevalente dell'arte contemporanea.

Avevo torto io, e Chessa aveva avuto l'intuizione di lasciare al vecchio (neppure tanto: aveva la mia età di oggi) la massima libertà di raccontare la sua storia. Era la «sua» storia. Si era immersi nel dogma dell'«être absolument moderne» dell'avanguardia, che aveva consentito l'accesso soltanto ad alcuni selezionatissimi eccentrici, per ragioni diverse: Scipione perché era morto giovanissimo, nel '31; Guttuso, il solo figurativo autorizzato e tollerato, in virtù della sua fede comunista (l'unico realista contro le avanguardie); Antonio Donghi, per una qualche misteriosa attrazione per il realismo magico che aveva preso alcuni collezionisti. Stop. Ma dietro a questi artisti romani c'era una storia sommersa che Trombadori ostinatamente faceva riaffiorare con il suo ricordo di altri non meno notevoli e totalmente dimenticati.Agli inizi degli anni '80 si affiancarono a lui, con convinzione e determinazione, Maurizio Fagiolo dell'Arco, grande studioso di pittura barocca romana e di De Chirico, e due donne straordinarie, rivali e agguerritissime: Lucia Torossi e Netta Vespignani. La seconda era, poi, parte di quella storia, essendo stata moglie di uno dei grandi pittori, di seconda generazione, della Scuola romana: Renzo Vespignani, ancora insufficientemente riconosciuto.

Cominciò così una stagione di mostre, in due gallerie: l'«Arco Farnese» e l'«Archivio della Scuola romana».Alla prima soccorse un giovanissimo studioso, ironico ed efebico, che accompagnava Lucia Torossi e le sue curiose ricerche: Fabio Benzi. Probabilmente la gara fu salutare alla rinascita della Scuola romana perché collezionisti, amatori, giovani studiosi si incuriosissero di un fenomeno che era stato radicalmente rimosso. Riapparvero così Guglielmo Janni, Riccardo Francalancia, Emanuele Cavalli, Mario Mafai, Antonietta Raphael, Mario ed Edita Broglio; e anche il primo Afro, e il primo Capogrossi, divenuti poi astrattisti. E, naturalmente, il grande Fausto Pirandello.Ci fu un gran fervore, in quei primi anni '80, e si estese fino a Torino, dove un collezionista appassionato e innamorato, Giovanni Audoli, aprì una succursale della Scuola romana, a far intendere la dimensione nazionale del fenomeno. Collezionisti come Iacorossi, Cerasi, Fendi, Iannaccone, Etro, Bellini, si aprirono alla Scuola romana e finalmente si risarcì una storia, la storia, oltre Scipione, Donghi, Guttuso. Io cominciai a capire il gusto, la fedeltà e le scelte del profeta Trombadori. In questo clima riemerge, forse come la personalità più completa, Alberto Ziveri. Intanto la sua impresa pittorica, iniziata alla fine degli anni Venti a fianco di Guglielmo Janni, è coronata nel '60 dal riconoscimento, che è anche un epitaffio, di Roberto Longhi, il quale si era distinto, tra i critici di arte contemporanea, per l'ostinata testimonianza di una pittura della realtà che, ai tempi suoi, aveva il nome, poi controverso, di Gregorio Sciltian.Questa scelta gli inimicò il più lirico Antonio Donghi, che si sentì trascurato dal grande critico. Da allora il silenzio, fino al '83, quando Maurizio Fagiolo dell'Arco rivela l'esistenza obliata di Ziveri. La situazione fu fotografata in tempo reale da Renato Guttuso, forse miglior critico che pittore: «Così è più facile, tra i frequentatori di gallerie d'arte, trovare gente che non si rifiuta di prendere seriamente in esame un qualunque polimaterico, e che riesce a cogliere imponderabili motivi e necessità di grido in un dipinto di Mathieu o di Tobey, ma rimane inerte, è fisicamente incapace di cogliere la qualità poetica della luce in un interno di Hopper o di Vuillard, o in un mazzetto di fiori di Ziveri. Ecco un compito per i nostri critici modernisti! Non è forse sempre il vostro dovere quello di spiegare la pittura? Vi piaccia o non vi piaccia? Fate dunque il vostro mestiere. Illustrate, spiegate che ci può essere arte anche nella rappresentazione evidente delle cose naturali. E che anche la luce di un quadruccio di fiori appartiene alla verità della pittura; illuminate le menti dei poveri profani ridotti a non intendere altro che il non evidente!». Nessuno ascoltò Guttuso; e da quel momento si aprì definitamente la strada ai conati nichilisti dell'arte povera e della falsa pittura della transavanguardia.Qualcuno al momento propizio tentò di varcare il confine proibito. Fra i primi Salvo, appena scomparso, che passò dall'arte concettuale a una ingenua pittura figurativa, vagamente neo-giottesca.

Ma il rilancio della Scuola romana e la grande mostra di Balthus alla Biennale aprirono la strada ai cosiddetti «citazionisti», come Carlo Maria Mariani, Bruno d'Arcevia, Alberto Abate e Stefano Di Stasio, e ad alcuni giovani sensibilissimi, allevati da Plinio de Martis: Maurizio Ligas, Aurelio Bulzatti e Lino Frongia. Incredibilmente restarono nel passato, diversamente legati alla lezione di Pietro Annigoni (morto provvidenzialmente nel 1988), Riccardo Tommasi Ferroni e Carlo Guarienti. Così quando, nei primi anni '80, in questo rovesciamento delle carte, riapparve all'improvviso Alberto Ziveri, consacrato da Maurizio Fagiolo in una delle grandi monografie nella collana dei «pittori di oggi», diretta Ezio Gribaudo, fu una rivelazione e una sorpresa. Ziveri era un grande realista i cui ascendenti erano Caravaggio, Rembrandt, Courbet, puntualmente riconosciuti da Trombadori. Ed era così lontano dal gusto contemporaneo, e da ogni ideologia, da apparire inattuale. Eppure, dopo Hopper, nessuno era stato più legato alla vita contemporanea e alla quotidianità di Ziveri. Alla vita vera, intendo, e non alla cronaca civile e politica, come il più fortunato Guttuso. Ma Ziveri! Ziveri, partito con Janni e Capogrossi da un tonalismo pierfranceschiano (1931-36), era arrivato parallelamente a Sciltian a un realismo (1945-46) di realtà fisica e carnale così intensa e diretta da rispecchiare come nessun altro, senza teorie e programmi, il suo tempo. Penso a Lettura, a Donna con scimmia, a Donna che si trucca, a Postribolo, a La donna e il bersagliere, a La rissa, tutti del 1937-38, fino a Faustina (del 1939), nella sua fisica sensualità, e al Ritratto di Adriana Pincherle, la sorella di Moravia, di goyesca potenza.I capolavori successivi, la Danae del '943 e il meraviglioso Postribolo del '45, sono tra i capolavori della narrativa pittorica del secolo, in una ideale corrispondenza proprio con l'opera di Moravia. Nel dopoguerra, dal '48 alla morte, nel 1990, nel suo remoto studio in via dell'Anima, Ziveri dipingerà segreti capolavori come Ritratto con pappagallo, Gli amanti, I pugili, alcune meravigliose teste di maiale, il cinematografico Interno, Piazza Vittorio di notte, tra cronaca vera e neorealismo, anticipando o fiancheggiando il realismo esistenziale di Alberto Sughi, fino a isolate invenzioni come Visita al museo, Interno di autobus, Il pollo sgozzato, e alcune purissime vedute e nature morte, da cui muoveranno i primi passi Buzzati e Frongia.

Ecco, in assoluta e spontanea fedeltà al vero, Ziveri è stato, pur tanto meno fortunato, l'Hopper italiano.

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