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Per i 150 anni arrivano i vini che fecero l'Italia

Il conte di Cavour produceva Barolo, Ricasoli "inventò" il Chianti e il Marsala era detto anche il "Garibaldi dolce". Il Vinitaly celebra i 150 anni del Paese. E noi vi suggeriamo venti bottiglie da riscoprire: una per ogni regione

Per i 150 anni arrivano 
i vini che fecero l'Italia

RomaCin cin al centocinquantesimo compleanno dell’Italia unita. Il brindisi si farà con la Bottiglia dell’Unità d’Italia, che sarà presentata alla quarantacinquesima edizione del Vinitaly, il più importante appuntamento italiano del settore, che apre oggi alla Fiera di Verona e andrà avanti fino a lunedì 11. In realtà si tratta di due cuvée - una bianca e una rossa - ciascuna realizzata con un blend di venti vitigni autoctoni in rappresentanza di tutte le regioni italiane. A simboleggiare non solo che l’unione fa la forza e il tannino, ma anche che il nostro è l’unico tra i grandi Paesi del vino mondiale nel quale la vite prospera davvero in ogni angolo di terra emersa, dall’Alto Adige a Pantelleria, dalla Valtellina al Salento. L’iniziativa è stata proposta dal presidente di Veronafiere Ettore Riello l’anno scorso al presidente della Repubblica durante la sua visita agli stand del Vinitaly. A Giorgio Napolitano le due bottiglie, che non si troveranno in commercio, sono state donate lo scorso 27 marzo in anteprima.
Non è un caso che il mondo enologico italiano si senta così coinvolto nelle celebrazioni dell’unità d’Italia. La storia del Risorgimento è infatti strettamente legata a quella di tre vini italiani. Il primo è il Barolo, grande piemontese da uve Nebbiolo, che fu in qualche modo valorizzato da Camillo Benso Conte di Cavour nella sua moderna azienda agricola nelle Langhe. Il secondo è il Chianti Classico, che Bettino Ricasoli, visionario imprenditore agricolo oltreché statista, letteralmente inventò nella versione che conosciamo ancora oggi. E poi il Marsala, il vino liquoroso siciliano prodotto nella città dello sbarco dei Mille e che qualcuno ribattezzò in una sua versione «Garibaldi dolce».
Passato ma anche presente e futuro a Verona. Il 45° Vinitaly sarà all’insegna di un timido sorriso per un settore che è la prima voce del made in Italy agroalimentare: il fatturato infatti torna a crescere (+5%) dopo qualche anno di contrazione, e questo avviene soprattutto grazie al boom delle esportazioni (+11,7%). L’Italia del calice, insomma, piace eccome non solo ai tradizionali mercati (Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Svizzera), ma anche a Cina, Giappone, Estremo Oriente e Brasile, che solo da poco hanno iniziato a conoscere Sangiovese, Nebbiolo e Nero d’Avola. L’altra faccia della medaglia è un consumo interno che si contrae: colpa della crisi economica, dei nuovi stili di vita che colpevolizzano l’alcol, di una comunicazione che non centra il bersaglio quando deve trasmettere la cultura degli straordinari terroir italici. La chiave di volta? Quasi tutti sono d’accordo: sta nell’impressionante ricchezza ampelografica del nostro Paese, che non ha pari al mondo. Tantissimi vitigni autoctoni spesso tutti da riscoprire, un antitodo che il mondo ci invidia contro l’omologazione del gusto avvenuta negli ultimi due decenni, quando «vincevano» soltanto i vini legnosi e «muscolari». Ora è il momento della leggerezza, dell’acidità, della tipicità, della versatilità.

Insomma: il nostro momento. Sapremo approfittarne?

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