I 50 anni di Zenga, il bullo di viale Ungheria che diventò un cigno

«Il piccolo Zenga era un tipo estroso. Quando prendeva un gol lasciava la porta e se ne andava. Così suo papà doveva stare a bordo campo tutta la partita per rimandarlo dentro» (Leonardo Sicolo, vicepresidente della Macallesi 1927)
«Walter è nato col pallone in mano. Da quando me lo ricordo, ci sono lui e un pallone. E resterà col pallone in mano tutta la vita. Èanche nato interista, come tutti noi Zenga. Tranne suo figlio Jacopo che è juventino». (Alberto Zenga, fratello di Walter).
«Mio figlio si chiama Giorgio e giocava insieme a Zenga nella Macallesi. Poi tutti e due sono andati all’Inter. A occuparsi di loro era il grande Benito Lorenzi, che siccome mio figlio era un po’ fragile di muscoli come rimedio gli diceva “devi prendere le bistecche con sopra l’ovo”» (la mamma di Giorgio Trevisan).
«Avevo nove anni, il mio amico Claudio Ambu giocava già alla Macallesi e un giorno mi portò lì. Cercavano un portiere, ma io non avevo l’età perché allora erano necessari dieci anni per poter iniziare. Pur di giocare falsificai la mia data di nascita. Ovviamente venni scoperto». (Walter Zenga)
L’altro ieri Walter Zenga ha compiuto cinquant’anni. Li ha festeggiati con sua figlia Samira in Romania, il paese dove - dei tanti che ha girato nella sua seconda vita di allenatore globe trotter - ha piantato radici più solide. Eppure, da qualche parte nel suo cuore ispido e spaccone, ci sono ancora radici più lontane e inestirpabili. Quelle radici che anche nel momento massimo della popolarità e della vita notturna e vipparola, gli facevano dire che per lui Milano erano sì le discoteche, i ristoranti alla moda, eccetera, ma che più di tutto Milano per lui era viale Ungheria. Due chilometri di microcosmo dove finiva la città e dove, ancora adesso, cominciano i campi. E dove il portiere dell’Inter dei record è nato, in una casa dello Iacp al numero 21/4.
La casa è ancora lì, identica ai tempi di Zenga. Ci sono i cedri e gli abeti. Nella casa abita ancora suo fratello Alberto, uno che dice «da viale Ungheria non me ne andrò mai». Ma che ti racconta anche di come il viale in cui crebbe Walter era un posto duro, lontano dai clichè della via Gluck celentaniana. Erano gli anni Settanta, e nelle periferie milanesi ci si schiantava di eroina. Viale Ungheria non faceva eccezione. Unico rifugio certo lo sport. Sport voleva dire calcio. E calcio in viale Ungheria voleva dire Macallesi 1927. Sulla sede, oggi una targa sintetizza: «Qui sono stati forgiati giovani allo sport, uomini alla vita».
Il piccolo Zenga era uno di quelli. Una foto lo mostra ancora bambino, ma già con la faccia da schiaffi che lo renderà celebre e farà strage di cuori. La Macallesi si chiama così perché era nata in via Petrella, dall’altra parte di Milano, in un quartiere operaio così chiuso e tosto da essere ribattezzato «El fort de Macallé», come il fortino italiano a sud di Adua espugnato dagli abissini nel 1886 solo dopo un lungo assedio. I colori della Macallesi sono ancora oggi quelli - giallo, azzurro e blu - delle mostrine dei soldati del maggiore Galliano. Ma questa è un’altra storia.
Dalla Macallesi, il giovane Zenga spiccò il volo in fretta: destinazione Inter, ovviamente, che lo avviò a una gavetta a base di Salernitana, Savona e San Benedetto. Quel che accadde dopo, dal 1982, fa parte della storia dell’Inter e del calcio. Quel che succede ora a mister Zenga, esonerato dal Palermo per un pari in casa col Catania, fa parte della barbarie del calcio attuale. Ma quel che alla fine resta è la storia straordinario di un ragazzino milanese che tirava calci a un pallone su un campo di terra, che sognava l’Inter e il mondo. E che li ha avuti.

Perché in viale Ungheria, a volte, i sogni diventano realtà.

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