Cultura e Spettacoli

"A 70 anni ho un rimpianto: dovevo restare in America"

Rita Pavone ha venduto 50 milioni di dischi e segnato una stagione della musica e del costume in Italia. Ora traccia in un libro il bilancio della sua vita

"A 70 anni ho un rimpianto: dovevo restare in America"

«Ah sì, ho già settant'anni?». Rita Pavone non la fermi neanche se glielo chiedi. È inarrestabile. Quando parla è una mitraglia. Quando ricorda il proprio passato, è una enciclopedia non solo della musica leggera italiana ma pure del nostro costume. Ora che ha appena compiuto 70 anni in forma perfetta (e li celebra con il libro Tutti pazzi per Rita scritto con Emilio Targia, edizioni Rizzoli) si può dire ciò che per tanto tempo molti hanno negato: Rita Pavone è stata decisiva nel periodo tra i '60 e i '70 per sganciare le donne da tanti pregiudizi e divieti. Ha cantato brani di enorme successo (tipo La partita di pallone o Come te non c'è nessuno , dieci settimane consecutive in testa alla classifica nel 1963) che piacevano a tutti, rockers e mods compresi.

Sempre energia. Mai compromessi.

E anche ora, dopo cinquanta milioni di copie vendute dei propri dischi, macina progetti uno dietro l'altro si gode una popolarità sinceramente planetaria. Dopotutto, quanti italiani sono stati ospiti per cinque volte dell'Ed Sullivan Show, il «talk» americano che tra i '50 e i '60 lanciò Elvis Presley e i Beatles? Nessuno. Pensate, in una puntata Rita Pavone era il terzo nome in cartellone dopo Duke Ellington ed Ella Fitzgerald, sostanzialmente una incoronazione della quale, però, lei non sfruttò le conseguenze (e più sotto ci spiega perché). Nella vita privata, poi: la sua storia d'amore con Teddy Reno, che ai tempi creò uno scandalo enorme perché lui era sposato con un figlio, prosegue da 48 anni senza incertezze. I giornali in quegli anni crearono un caso, la Rai quasi li «censurò», ma questa piccola torinese tutto pepe diventò la donna che le donne potevano solo sognare di essere: ribelle ma non volgare, spregiudicata ma fedele, creativa ma popolare. Un simbolo, insomma. «L'energia che ho dentro ce l'ho e non ci posso fare nulla», dice adesso con un accento vagamente internazionale perché la sua torinesità si è diluita in una parlata svizzera perché abita lì da decenni. Due anni fa ha pubblicato un disco dopo quasi un quarto di secolo lontano dai mercati (l'ottimo Masters ), stasera Bruno Vespa le dedica uno speciale di Porta a Porta su Raiuno e, pian piano, in tutto il mondo anche i «nativi digitali», ossia i ragazzi nati nell'era di internet, si accorgono di quanto importante sia stata questo Pel di carota (soprannome conquistato negli anni Sessanta per il colore dei capelli) nella storia della musica mescolando rock e candore, soul e naturalezza con uno stile unico: il suo. «Forse chi è nato tra il 1945 e il 1950 fa parte di una generazione fortunata», minimizza lei adesso parlando, come sempre, a cento all'ora.

In effetti, cara Rita Pavone, oggi i ragazzi sembrano meno scatenati.

«In giro vedo ventenni che sembrano morti in piedi. Forse non hanno l'entusiasmo che avevamo noi alla loro età, mancano loro quei progetti e quella voglia di fare che ci portò a essere così importanti. Oggi mi sembra che molti giovani abbiano la corrente spenta».

Essenzialmente che cosa manca?

«Soprattutto la curiosità e la voglia di conoscere. Avessimo avuto noi i “motori di ricerca” che ci sono adesso sul web, ci saremmo sbizzarriti e avremmo conosciuto molto di più di ciò che allora riuscivamo faticosamente a conoscere. E non è un discorso limitato alla musica. Ci sono ballerini che magari ballano il tip tap ma non sanno neppure chi sia Gene Kelly, che lo ha reso universalmente famoso diventando una superstar con Fred Astaire. Non è possibile! Ecco, questo è forse ciò che a settant'anni mi sento di dire: noi eravamo molto ma molto più curiosi».

Oggi dicono che mancano le prospettive.

«Ha presente quella canzone di Gianni Morandi che avrei voluto cantare io tanto è bella?».

Quale?

« Uno su mille ».

Perché?

«C'è un verso che potrebbe essere il mio biglietto da visita: “Se sei a terra non strisciare mai” e poi “se ti diranno sei finito, non ci credere, finché non suona la campana vai”. Avrei voluto cantarla io, quella canzone. E se un giorno mi mancherà questa energia vorrà dire che sono malata oppure che mi è successo qualcosa di grave, molto grave».

Con tutta questa energia magari avrà fatto scelte troppo affrettate. Ha rimorsi o rimpianti?

«Ma no, dalla vita ho avuto tantissimo sia come donna che come artista. Ho due figli meravigliosi di 41 e 46 anni. E da cantante sono arrivata a un livello tale che i miei brani si avvicendavano al primo posto in classifica quasi come se non ci fossero altre canzoni in circolazioni. Onestamente un livello che quasi tutti possono soltanto sognare di raggiungere e che io ho invece avuto la fortuna di toccare con mano. Però...».

Però?

«Se proprio devo trovare un neo nella mia carriera è l'America».

In che senso?

«Quando sono andata là, avrei potuto rimanerci. Avrei conosciuto un modo diverso di lavorare, avrei annusato ancor più da vicino la musica che io amo (il soul, il jazz, il rock - ndr ) e magari avrei preso una strada diversa. Però non mi posso lamentare, è andata così».

Ma perché è andata così?

«I discografici mi avevano chiesto di restare. Volevano investire su di me e avevano capito che avrei potuto rappresentare una figura di popstar che negli anni Sessanta era totalmente nuova e imprevedibile. Ma non me la sono sentita».

Ci saranno stati motivi davvero gravi.

«Motivi famigliari».

La sua famiglia le ha impedito di diventare «americana»?

«In realtà è stato più complicato. Io ero minorenne. Mio padre aveva un'altra storia d'amore e mia mamma era disorientata, sofferente, smarrita. Io la capisco, oggi. Ma senza dubbio la mia famiglia allora ha giocato sulla mia pelle. E io non me la sono sentita di restare negli States a fare ciò che sognavo fin da quando nel 1959 avevo iniziato a cantare al Teatro Alfieri di Torino: diventare una stella in America. Avrei fatto di tutto anche solo per trascorrere la mia carriera a esibirmi sul palco di Las Vegas. Pensi che il presidente della William Morris Agency, l'agenzia più importante nel mondo della televisione, della musica e del cinema allora mi disse: “Lei si perde una grande occasione, non capita a quasi nessuno straniero di essere in classifica negli Stati Uniti con un brano cantato in inglese”».

E quindi?

«Tornai in Italia per indossare i pantaloni, come si dice dalle mie parti. Ho fatto il capofamiglia anche perché mio fratello era più giovane. Ma poi mi sono morsicata le mani per anni, per tanti anni. Sono occasioni che capitano una sola volta nella vita. Per fortuna il resto è andato tutto benissimo e questo rimane un ricordo più ancora che un rimpianto».

Che cosa sarebbe diventata Rita Pavone in America?

«Le rispondo con un paragone. Condoleezza Rice dice di essere molto brava al pianoforte perché lo ha studiato a scuola. Noi a scuola al massimo impariamo soffiare nel flauto. Gli italiani nel mondo della musica partono handicappati perché la scuole e le istituzioni non le riconoscono quella dignità che in tutte, ripeto in tutte, le altre parti del mondo Occidentale le viene riconosciuta. In America avrei compensato questa mancanza, e avrei fatto ciò che ancora oggi mi piace di più: avrei imparato».

L'Italia è tuttora così.

«Se ne accorge anche mio figlio George Merk, che è un musicista di talento, ha una voce particolare e buca il video. In Svizzera i suoi brani funzionano alla grande ma in Italia nessuno risponde, nessuno si fa sentire».

È uno dei due figli che ha avuto con Teddy Reno.

«Il nostro è stato realmente un incontro tra due anime. Pensi che non era neanche il mio tipo ideale. Allora io ero follemente innamorata di William Holden. Avrò visto trenta volte la scena di Picnic nel quale la zitella gli strappa la camicia e lo lascia a torso nudo. Ma poi ho incontrato Teddy».

E come è andata?

«Me ne sono innamorata senza accorgermene. E anche lui di me».

Fu uno scandalo: lui era molto più «grande» ed era già padre.

«Come dice Renato Zero nel libro Tutti pazzi per Rita , “lei avrebbe potuto vivere un amore carbonaro e invece ha avuto il coraggio di dirlo a tutti pagandone le conseguenze”. Ne ho sentite di tutti i colori, ogni tipo di accusa. Ho ingoiato tanti rospi. Ma se arriveremo a festeggiare il mezzo secolo di vita insieme, sai che soddisfazione?».

E adesso?

«Ho in programma un piccolo tour in Sudamerica e probabilmente un concerto a Londra».

Insomma, vede? Non si ferma proprio mai.

«Se fossi inglese, la Regina mi avrebbe già nominata “Lady”. In Italia non funziona così, ma in fondo non me ne faccio un cruccio.

La vita mi ha dato ben più di quanto mi sarei aspettata».

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