A 10 anni da Nassiriya

I figli che hanno sconfitto la guerra

L'attentato ha sconvolto le loro famiglie ma non ha tolto loro l'orgoglio. E la certezza di avere degli eroi come padri

Marco Introvaia, oggi 26enne, con il padre Domenico e il berretto dei carabinieri
Marco Introvaia, oggi 26enne, con il padre Domenico e il berretto dei carabinieri

Qualcuno spera in una medaglia. Qualcuno si accontenta di ricordare. Ma nessuno pensa che il loro sacrificio sia stato vano. Sono i figli di Nassirya, bambini e ragazzi cresciuti nel ricordo dei padri assassinati. Dieci anni dopo «Il Giornale» è andato a cercare alcuni di loro. Pietro e Alessia, figli del maresciallo dei carabinieri Enzo Fregosi, uno dei «fondatori» dei «Gruppi di intervento speciale». Di quel padre così «speciale» è rimasta una bara vuota. Alessia e Pietro lo ricordano indossando la catenina e l'anello lasciati a casa prima di partire. A Diego, figlio 29enne del maresciallo Giovanni Cavallaro, è invece rimasto l'immenso dolore. «Quella mattina ero all'Università. Da allora non dormo più...».

"La notizia arrivò con un sms alla mia compagna di banco"

«L'ultima volta che sentii mio padre fu la sera prima. Telefonò tardi. Io e mia sorella Alessia dormivamo. Lui pretese che la mamma ci svegliasse. Non lo faceva mai. Ma quella sera non era il papà allegro e spensierato di sempre. Era freddo, preoccupato. La mattina dopo Cristina, la mia compagna di banco, ricevette un sms sull'attentato. Lì ebbi il primo presentimento. Poi mi vennero a prendere e quando a vidi i carabinieri sotto casa persi i sensi». Marco, figlio dell'appuntato dei Carabinieri Domenico Introvaia, da quella mattina di dieci anni fa ne ha fatta di strada. Si è preso due lauree, un posto da dirigente alla Regione Sicilia e un incarico di assessore anti racket al comune di Monreale. Ma la strage di Nassirya, la morte di suo padre restano il centro della sua vita. «Dopo quel 12 novembre sono venuti giorni strazianti, ma anche tanta solidarietà. Ricordo la tristezza dei funerali di Stato, ma anche la folla, l'affetto, la solidarietà dei comuni cittadini. La loro vicinanza ci da la forza di andare e ci fa capire che mio padre non è stato dimenticato. Dopo quell'attacco l'Italia era in ginocchio, ma ha riscoperto l'amor patrio e l'unita nazionale. Le immagini dei funerali, i tricolori alle finestre, la folla in fila al Vittoriano per rendere omaggio a mio padre e ai suoi colleghi sono una pagina di storia indimenticabile. Quello e quel che è seguito ci hanno fatto capire che la morte di mio padre non è stata vana. Contrariamente a quel che dicono alcuni le nostre forze armate hanno lavorato per la pace e hanno partecipato alla ricostruzione del paese. Per questo io seppur orfano resto un fortissimo sostenitore delle missioni all'estero. Mio padre amava l'Arma dei Carabinieri e amava quelle missioni. E questi sono i valori che continua a trasmettermi. Grazie al suo sacrificio io continuo ad amare la patria a cui ha donato la vita».

"La gente mi ferma e chiede: perché siete stati dimenticati?"

«A dieci anni di distanza il rammarico più grande è la mancanza di un riconoscimento tangibile del sacrificio di mio padre e dei suoi colleghi. Per chi veste la divisa l'unico riconoscimento possibile, lo dico per la prima volta in dieci anni, è una medaglia al valor militare. Spesso le persone ci chiamano e ci chiedono, ma perché non hanno ricevuto neppure una medaglia, neppure un riconoscimento al valor militare? E noi io, mia madre i miei due fratelli non sappiamo cosa rispondere. Questa è la grande ferita rimasta aperta».
Vincenza, figlia del maresciallo dei Carabinieri Alfonso Trincone quella mattina del 12 novembre era scuola, per lei era una giornata cone tante. Invece all'improvviso si ritrovò in un incubo: la vennero a prendere, la portarono a casa e lei si ritrovò assieme alla mamma e ai fratellini ad aspettare davanti ad un televisore. «Papà ufficialmente era disperso e noi restammo lì in silenzio ad attendere. Io e mia madre non speravamo. In qualche modo sapevamo già che non sarebbe tornato. Dieci anni dopo resto convinta che papà sia morto facendo quello in cui credeva e quello che più gli piaceva. Di tutte le sue immagini ricordo quelle ricevute dopo la sua morte. Quelle scattate dai suoi colleghi in cui è sempre circondato dai bambini».
Immagini di gioia in un inferno: « Mio padre era soprattutto questo. Era un militare entusiasta sempre pronto a distribuire amore. Un militare sempre pronto a dedicare tutta la sua passione e il suo entusiasmo alla professione in cui credeva. Per questo mi rammarica che il suo sacrificio non venga riconosciuto e premiato dalle istituzioni a cui ha regalato la propria vita».

"Il mio sogno si è realizzato: indossare la divisa di papà"

A Fabio il papà, aveva lasciato il sogno di vestire la divisa da carabiniere. Ma vestire la divisa non è facile. Soprattutto se sei un ragazzo disabile immobile su una carrozzina.
Oggi quel sogno lasciato in eredità a suo figlio da Filippo Merlino, maresciallo dei carabinieri ucciso a Nassirya, si è in parte realizzato. Il 23enne Fabio Merlino infatti attualmente lavora come assistente amministrativo nella caserma di Viadana affidata un tempo al comando del padre. E in quella caserma tutto gli parla di lui. «Dieci anni dopo il ricordo non è svanito. Quel sacrificio ha colpito tutti gli italiani. Nessuno dimentica Nassirya. Quando è successo avevo tredici anni ma è stata la prima volta che ho visto l'Italia unita, con il Tricolore in mano. Questo mi rende ancora oggi particolarmente orgoglioso perché posso dire a tutti che mio padre è morto per l'Italia. Lui è un eroe non solo per me, ma per tutti gli italiani».
Un eroe che gli manca tanto ma il cui sacrificio è una molla per continuare a vivere nel suo ricordo: «Lui e i suoi colleghi hanno contribuito a riunire l'Italia a risvegliare nei cittadini quel patriottismo rimasto sopito per tanti anni. Chi pensa che la sua vita sia stata sprecata non dice la verità. Una vita regalata alla Patria non è mai una vita buttata. Papà e gli altri erano lì per difenderci dal terrorismo internazionale e la loro presenza in quel territorio ha contribuito a tener lontana la minaccia dal nostro Paese. Lui mi ha lasciato tantissimi ricordi, ma soprattutto l'amore per il lavoro e per l'Italia.

Papà era molto fiero di quel che faceva e mi ha trasmesso i valori in cui ogni italiano dovrebbe credere».

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