Cultura e Spettacoli

«I nostri film? Troppo provinciali»

Los AngelesDiciotto anni dopo l’Oscar per Mediterraneo, Gabriele Salvatores torna ad Hollywood per la prima mondiale del suo nuovo film Happy Family, tratto dalla pièce teatrale omonima di Alessandro Genovesi, prodotta dal teatro dell’Elfo di Milano di cui Salvatores è uno dei fondatori.
Tra gli interpreti Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio, perfetti in ruoli che strizzano l’occhio ai primi film di Salvatores, il quale ha presentato la pellicola con Fabio De Luigi, il bravissimo attore attorno a cui ruota una commedia originale, divertente, frizzante, emozionante, intelligente senza mai cadere nell’autocompiacimento, una lettera d’amore a una Milano bellissima mai vista al cinema, un film dall’art direction e dalla composizione raffinatissime che omaggia Woody Allen, Pedro Almodóvar e Wes Anderson pur rimanendo completamente originale e indescrivibile. Un piacere per il cuore e per il cervello che è stato accolto da una lunga standing ovation da parte del pubblico che stipava il Mann Chinese 6 di Hollywood.
Sylvester Stallone, dalle cui mani Salvatores ricevette l’Oscar per il miglior film straniero, ha fatto una capatina sul tappeto rosso per sostenere il regista prima della proiezione, svoltasi nell’ambito del festival Los Angeles, Italia, a cui ha partecipato anche Samuel L. Jackson, un habitué della rassegna gemella di Capri prodotta da Pascal Vicedomini. «Avere Stallone come padrino della serata è stato una specie di corto circuito col passato», ci ha confidato Salvatores, «è stato carino da parte sua passare a salutarci, proprio pochi giorni prima degli Oscar».
Cosa ha rappresentato per lei l’Oscar?
«L’Oscar è una cosa molto forte, ti dà sicuramente dei problemi perché all’improvviso un riflettore viene puntato su di te, ma ti dà anche potere e dei vantaggi. Grazie a questa statuetta ho potuto realizzare dei sogni, fare film che non mi avrebbero mai fatto fare altrimenti, opere di fantascienza come Nirvana, e tanti film diversi uno dall’altro. Non è male tornare qui dopo aver fatto un mio percorso professionale, ora che in qualche modo sto tornando ad alcune atmosfere alla Mediterraneo. Happy Family è infatti una commedia, pur se sofisticata e particolare, il cui clima ricorda quelli dei miei inizi».
Non è mai stato tentato da una carriera hollywoodiana?
«Subito dopo Mediterraneo avevano chiesto a me e al mio produttore Maurizio Totti di venire a vivere qua. Uno studio ci aveva proposto anche una bellissima casa a Malibù, e mi dispiace molto non averne usufruito perché era proprio stupenda. Il problema è che era uno dei miei primi film e pensavo che dovevo ancora imparare molto, e poi mi ero appena innamorato di qualcuno che stava in Italia, e a volte scegli la vita invece del cinema».
E in questi giorni ha avuto meeting con studios, agenzie o produttori?
«Abbiamo incontrato delle persone, altre sono venute a vedere il film. Per me il problema del cinema italiano è non tanto venire a lavorare qui come regista, entrare nel mondo americano, ma provare a fare con loro dei film che abbiano una visione europea, uno sguardo nostro. Questo è molto più difficile, perché chiaramente non tutti sono disponibili, però secondo me la strada giusta è quella di provare a mettere insieme le cose. Ormai viviamo in un mondo che diventa sempre più piccolo, quindi ad esempio perché non girare il prossimo film in inglese se è una coproduzione veramente europea, tipo The Reader per intenderci, che quindi può confrontarsi anche con gli Stati Uniti? Ecco, questa è una sfida che mi interessa».
Ci sono progetti concreti?
«No, in questo momento ci sono tre o quattro cose che sto vedendo, ma niente di preciso. Non è ancora nato questo figlio, è un momento molto delicato, perché lo affidi al mondo e improvvisamente deve camminare con le proprie gambe».
Ci sono degli artisti particolari con cui vorrebbe collaborare?
«Potrei citare centinaia di attori che sono straordinari, o produttori. Quello che mi piacerebbe molto però è lavorare con degli sceneggiatori americani. Forse in Italia abbiamo un po’ questo problema, non per la capacità dei nostri sceneggiatori che è alta, ma quello di non saper sempre raccontare storie che escano un pochino dal nostro cortile, che diventino un po’ più internazionali.

Qui sono molto bravi in questo campo e questa è la cosa che mi piacerebbe provare a fare».

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