Cultura e Spettacoli

I pittori fiorentini «alla macchia»

Influenzati dalla pittura «en plein air» gli amici del Caffè Michelangelo intinsero i pennelli nella luce ma con una nuova attenzione alla realtà sociale

Tirano come bestie quei cinque uomini che trascinano a rimorchio un natante lungo il corso dell’Arno, alle Cascine. Le schiene curve, i berretti inclinati sotto il sole di Firenze, i polpacci tesi nello sforzo. Si intitola L’alzaia il suggestivo dipinto firmato da Telemaco Signorini nel 1864, che descrive la scena nel tratto parallelo al fiume, l’alzaia appunto. Sullo sfondo case fiorentine, una vegetazione ancora ricca e, davanti agli uomini affaticati, un omino indifferente, in redingote e tuba, che tiene per mano una bambina con un cagnolino.
La tela, firmata, è una denuncia delle diseguaglianze sociali del tempo. Ritrovata recentemente sul mercato inglese, è esposta con altri sessantotto dipinti nella mostra «Da Courbet a Fattori», in corso al Castello Pasquini di Castiglioncello, tutta giocata sui «princìpi del vero». È il quinto appuntamento macchiaiolo organizzato dal Comune di Rosignano Marittimo attraverso il Centro per l’Arte «Diego Martelli», con la collaborazione della Galleria d’Arte moderna di Firenze. Una rassegna intelligente e sottile, curata da Francesca Dini (catalogo Skira), che ripercorre in sette sezioni e dipinti in gran parte inediti, tutti firmati, l’adesione al vero dei macchiaioli, dagli anni Cinquanta dell’Ottocento alla fine del secolo.
Il filo conduttore è l’interesse per la realtà con le sue problematiche sociali, morali e politiche, comuni a tutta l’Europa della seconda metà dell’Ottocento e ben presente nelle teorie di filosofi e intellettuali francesi contemporanei. Per Pierre-Joseph Proudhon, autore del trattato Du principe de l’Art et de sa destination sociale (Parigi, 1865), il compito dell’arte è morale: rappresentare gli uomini nella loro reale natura e condizione.
I primi a dipingere paesaggi naturali e soggetti umili, di contadini e zappatori, in contrasto con la tradizione aulica settecentesca, erano stati i paesaggisti di Barbizon, piccolo paese presso Fontainebleau. A questi pittori si ispirano i macchiaioli del Caffè Michelangelo di Firenze, che ne vedono le opere all’Esposizione Universale di Parigi del 1855 e nella collezione fiorentina del principe Anatolio Demidoff: apprezzano soggetti, luce, stesura rapida en plein air e li sperimentano nelle loro tele. La mostra si apre con alcuni splendidi paesaggi francesi messi a confronto con quelli dei primi macchiaioli, da Serafino da Tivoli a Telemaco Signorini: pascoli e pasture, grandi cieli e grandi boschi pieni di luce.
A guardare alla natura dei Barbizonniers era stato anche Gustave Courbet, grande rivoluzionario dell’arte in nome del realismo, come affermava nella personale parigina del 1855 intitolata «Pavillon du Realisme». Le sue idee e la sua pittura tesa verso soggetti semplici e quotidiani, trattati con straordinaria libertà, trovavano la loro interpretazione negli scritti dell’amico filosofo Proudhon e finivano con influenzare anche i pittori del Caffè Michelangelo. Per questo una sezione della mostra presenta un gruppo di opere di Courbet degli anni 1841-1869, con ritratti, paesaggi, scene di vita e animali, mai esposti in Toscana, fra cui I bracconieri del 1867, l’inedito Cervi sulla neve e il bel disegno col ritratto di Proudhon sul letto di morte del 1868.
I pittori toscani assimilano la lezione del «vero», ma la risolvono in modo originale, attraverso la «macchia». Luce e chiazze di colore diventano gli strumenti per descrivere la soleggiata natura marina e contadina, gli interni borghesi, i pergolati, gli uomini e gli animali al lavoro. A testimoniarli ci sono capolavori come la citata L’alzaia di Signorini, la Pineta di Tombolo (1866) di Fattori, La portatrice (1874) di Zandomeneghi, che non si vedeva dall’Ottocento e ancora Carro e bovi nella Maremma toscana di Abbati, Conversazione sulla terrazza di Borrani e La Visita del 1868 di Silvestro Lega.
Il percorso documenta poi le diverse interpretazioni del «vero» negli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento da parte di artisti noti e no, che permettono di cogliere sempre di più aspetti della società in crescita. È il caso del Monte di Pietà di Francesco Gioli del 1880, un «quadro pieno di carattere, di verità, di naturalezza», come scriveva nel 1882 il critico Giovanni Carocci, presentandolo alla Promotrice fiorentina del 1883, e descrivendo tutti i tipi, «veri», di quella piccola folla pietosa.
mtazartes@tiscali.it
LA MOSTRA

Da Courbet a Fattori. I princìpi del vero.

Castiglioncello, Castello Pasquini, sino al 1° novembre.

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