I radical-chic che snobbano Bush

Leggo che negli States si è costituita una eletta schiera di scrittori, sceneggiatori, gente di cinema, giornalisti-chic che ha redatto un appello volto a mobilitare le forze del bene contro il bushismo, definito come il male dell’animo e della società americana. Il sodalizio ha scelto, come titolo per il suo appello, la locuzione seguente: «Immaginare collettivamente un futuro migliore». L’idea di intellettuali che si mettono insieme per «immaginare collettivamente» qualcosa dovrebbe indurre chicchessia a tenersi a distanza. Appelli di quel genere vengono del resto partoriti da noi nei centri sociali di Casalini e Massimo Cacciari nei quali da tempo si predica che «un modo diverso di vivere è possibile».
Questa bella gara da una parte all’altra dell’Oceano non può però stupire. In realtà dal ’68 in poi, da talune agitazioni nei college frequentate dai figli di una certa borghesia americana, molte delle sciocchezze che hanno furoreggiato in Europa, dal «maggio francese» parigino alla «fantasia al potere» in Italia, sono di importazione. Dagli States proviene ad esempio quel politically correct che ha finito per imporsi come una sorta di slang mentale anche di qua dell’Oceano.
Uno dei nemici di questo pensiero unico della sinistra mondiale, Tom Wolfe, ha scritto un saggio nel quale i fasti e i guasti del politically correct sono messi alla berlina. Del Wolfe ebbi a leggere articoli godibilissimi durante la campagna elettorale del 2004, dominata da un anti-bushismo furioso diffuso sui media ad opera dei soliti ambienti cultural-mondani. Scrisse allora Tom Wolfe che messosi alla ricerca di una buona ragione per votare Bush gli sembrò di averla trovata nelle dichiarazioni di tanti scrittori, cinematografari, divi e divetti i quali andavano giurando che in caso di vittoria repubblicana avrebbero abbandonato gli States per andarsene esuli nel mondo. Raccontò in seguito Wolfe che, avendo vinto Bush, egli si recò all’aeroporto per salutare tanti dei suoi amici in partenza. Vi soggiornò a lungo, vi collocò postazioni di spie, ma non ebbe notizia di alcun esule che avesse abbandonato l’ingrata Patria. Il racconto ci ripagò delle dichiarazioni dei Consolo, dei Camilleri, dei Tabucchi che analoghi propositi di esilio confidarono ai giornali prima delle elezioni del 2001.
Negli Usa l’esito delle elezioni di mezzo termine ha riacceso i furori anti-Bush. Con la speranza di potersi concedere qualche scivolata maramaldesca. È il caso di uno scrittore che va per la maggiore, Jonathan Franzen, intervistato dal Corriere. Il Franzen dice di Bush, il quale pure per due anni ancora rappresenterà il suo Paese nel mondo, che egli «non cambierà nulla in Irak, tanto le vite perdute laggiù sono quelle di altri». Lo scrittore offre infine questo ritratto di Bush. «Si tratta - dice - di un piccolo e patetico renitente alla leva» che continua a misurarsi con la grandezza del padre. E aggiunge: «È difficile prendersela con uno che a sei anni perdette una sorellina senza che nessuno si degnasse in famiglia di informarlo», per concludere: «Bush non si è mai liberato dell’assolutismo manicheo degli alcolisti. Dentro di sé è rimasto un alcolista rifugiatosi in dogmatismi manichei confortanti quanto la bottiglia». Davvero, la figura del Maramaldo non appartiene solo ai momenti più sordidi della nostra storia.
È capitato qualche volta, a chi scrive, di far osservare a certi anti-americani di casa nostra i quali si ritengono parte di non so quale rivoluzione mondiale che per quanto essi si sforzino di parlar male dell’America non lo faranno mai quanto sono capaci di farlo gli americani stessi. È il segno di una grande democrazia, capace di guardarsi in faccia, di fare i conti con sé stessa senza risparmiarsi nulla, neppure le piccole infamie del signor Franzen, che il Corriere della Sera definisce «critico lucido» di Bush. Figurarsi quelli che la lucidità l’hanno persa.
a.

gismondi@tin.it

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