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MA I RICCHI SMETTANO DI ESSERE INGORDI

Ieri Giampaolo Pansa, sul Riformista, ha denunciato quello che sembra essere diventato il nuovo sport nazionale: la caccia al ricco. Ha pure citato il nostro chi va là con il quale, nei giorni scorsi, abbiamo ricordato che le prime Brigate rosse si fecero le ossa proprio con qualche sequestro-lampo di dirigenti industriali. Pansa, come antidoto a un possibile ritorno del terrorismo, invita giornali e sindacati ad abbassare i toni. Siamo ovviamente d’accordo, d’accordissimo con Pansa. Questo Giornale è nato anche e forse soprattutto per questo: per opporsi a una montante marea di estremismo che portò l’Italia al punto che sappiamo. A quella vocazione non abbiamo mai rinunciato. Oggi, ad esempio, intervistiamo uno di quei supermanager superstipendiati, e di conseguenza anche superdetestati, per dargli modo di far sapere in quale clima di odio si trovino a vivere personaggi come lui. Ma proprio perché vogliamo far di tutto per evitare un tragico revival del brigatismo, pensiamo che abbassare i toni e ricordare i disastri degli anni Settanta non sia sufficiente.

C’è anche da rimuovere, o almeno correggere, una diseguaglianza sociale che sarebbe folle fingere di non vedere. Ripetiamo: noi del Giornale dal contagio di una certa demagogia siamo immuni grazie a un marchio doc. Sappiamo bene che non c’è nulla di male se un grande manager che guida una grande azienda percepisce un grande stipendio, specie se ottiene grandi risultati. Ma oggi s’è ormai consolidata una prassi perversa per la quale anche chi fa affondare un’azienda ha poi la facoltà di decidere da sé come auto-premiarsi. C’è una questione di autoreferenzialità, dunque. E c’è anche una questione di senso della misura.

L’altro giorno abbiamo pubblicato gli emolumenti dei dieci manager più pagati d’Italia: il primo ha guadagnato 8.305.000 euro in un anno, il decimo poco meno di cinque milioni. È sbagliato pensare che cifre del genere, nel mezzo di una crisi che costringe molte famiglie a rinunciare all’essenziale, destano scandalo? C’è una questione-diseguaglianza, dunque. È vero che c’è sempre stata e che sempre ci sarà. Ma è vero pure che mai come adesso la distanza tra ricchi e poveri è abissale. Non c’è bisogno di paragonarsi al Terzo Mondo.

Secondo i dati dell’Ocse, lo ricordavamo anche qualche giorno fa, negli anni Sessanta il presidente di un’azienda guadagnava mediamente 50 volte più di un proprio operaio; adesso, trecento volte tanto. Secondo JP Morgan - che non è la Cgil - una proporzione equa dovrebbe essere di venti volte tanto. Non c’è dubbio, insomma, che per tagliare sul nascere le gambe a un nuovo terrorismo sia necessario anche un cambio di passo da parte di quei «ricchi» che noi ci guardiamo bene dal demonizzare, ma che a loro volta debbono guardarsi bene dalla tentazione dell’ingordigia.

«La borghesia è una cosa, certi borghesi sono un’altra», scriveva Indro Montanelli sul Candido del 25 aprile 1948, denunciando «un certo numero di cittadini milanesi» che, prima delle elezioni politiche, temendo una vittoria dei comunisti erano scappati in Svizzera portandosi appresso buona parte dei capitali. «Questi sono disertori», scriveva Montanelli, «e con loro non saremo buoni». Oggi non si tratta di diserzione ma, appunto, di ingordigia: in entrambi i casi, comunque, di egoismo. Ci batteremo, sempre, contro gli estremisti che stanno dando la caccia a manager e banchieri. Ma una delle prime mosse di questa battaglia è proprio chiedere ai privilegiati del nostro tempo di dare un segnale di cambiamento.

Non c’è solo la questione dei mega-stipendi: c’è anche, ad esempio, che in Italia solo lo 0,9 per cento dichiara un reddito superiore ai centomila euro lordi l’anno, e solo il 2 per cento più di settantamila. Non è una presa in giro? L’altro giorno parlando di don Vitaliano Della Sala, il prete no global che si fa grande pubblicità giocando a fare il rivoluzionario, ho ricordato che Gesù non ha chiesto ai poveri di fare la rivoluzione ma ai ricchi di cambiare il cuore. Confermo. Ed è proprio un cambiamento da parte di chi ha di più che potrebbe disarmare molti di coloro che hanno di meno.

Lo so: per gran parte delle teste calde che rapiscono, incendiano e devastano, le diseguaglianze sono solo un alibi. Hanno la violenza nel sangue, e per menare le mani ogni pretesto sarebbe buono. Ma togliere quell’alibi è indispensabile - oltre che per un fatto di giustizia - per evitare che attorno a loro si crei un diffuso clima di consenso, come quello che favorì la nascita delle Br. Ho citato, prima, il numero del Candido uscito subito dopo le elezioni dell’aprile 1948, quelle che segnarono la vittoria della Dc e la sconfitta dei comunisti. Oltre a quell’articolo di Montanelli, c’era una vignetta di Guareschi che ritraeva un opulento industriale che contava i quattrini.

«E adesso non far sì», si leggeva nella vignetta, «che l’operaio si penta di non aver votato per il Fronte".

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