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"I soldi non danno la felicità. Ma è la felicità che dà i soldi"

Jacob Burak, uomo d’affari israeliano, ribalta il luogo comune e spiega i segreti del successo: "Serve più la psicologia della finanza"

"I soldi non danno la felicità. Ma è la felicità che dà i soldi"

I soldi sono questione di felicità. Jacob Burak, figlio di due sopravvissuti all’Olocausto e oggi miliardario israeliano, dopo 25 anni a capo di un fondo d’investimento ha scoperto che più sei contento e soddisfatto della tua vita, più è facile macinare milioni. E non il contrario, come quasi tutti pensano. È la tesi del suo libro Ma gli scimpanzé sognano la pensione?, in cui racconta le esperienze che l’hanno reso ricchissimo e rivela un altro segreto imparato in tanti anni di carriera: per far soldi non è necessario conoscere la finanza, ma la psicologia. «Il mondo degli affari è il mondo delle persone, cioè il mondo delle loro debolezze» racconta al telefono da Tel Aviv, appena prima di partire per una vacanza in Costa Smeralda.

Ha detto: se tutti si comportassero in modo razionale, il mercato si fermerebbe. Perché?
«Il mercato funziona così: per ogni venditore che crede di vendere alto c’è un compratore convinto di comprare basso. Ed entrambi pensano sia un affare. Il fatto è che gli esseri umani non sono razionali: sono emotivi, fragili, deboli. Molto dipende dall’educazione e dalla specie».

Perciò fa il confronto con gli scimpanzé?
«In termini di geni c’è solo l’1,24 per cento di differenza fra uomini e scimpanzé: di che cosa è responsabile questa percentuale minima?».

Di che cosa?
«Gli uomini sono l’unica specie che riesca a immaginare il futuro, perché sono consapevoli della fine, della morte».

E come influenza gli affari?
«Se sei affamato di vita vuoi creare qualcosa che resti. Un imprenditore è uno che vuole lasciare la sua impronta nella sabbia del mondo. E anche la felicità è legata alla nostra capacità di immaginare il futuro».

I geni determinano la felicità?
«Per metà. Poi ci sono le condizioni socio-ambientali. Noi possiamo lavorare sul 40 per cento che rimane e aumentare il nostro livello di felicità».

Il denaro serve allo scopo?
«Non solo il denaro non compra la felicità. Se credi che il possesso materiale ti renderà felice, questa convinzione ti impedirà di esserlo. Vale il contrario: più sei felice, più fai soldi».

La felicità rende ricchi?
«Lo dimostrano anche delle ricerche: un gruppo di ragazzi è stato seguito per dieci anni, dalla scuola al lavoro. Quelli che già da piccoli erano più felici, da grandi erano i più ricchi».

Ma è proprio sicuro che i soldi non aiutino a essere felici? Neanche un pochino?
«Sei felice se usi i soldi per comprare esperienze, non cose».
E quali esperienze hanno segnato il suo successo negli affari?
«Un periodo di tre mesi alla Harvard Business School, nel 1984. Ero ingegnere, non avevo alcuna abilità finanziaria. Ma ho capito che non serve: il mondo del business non ha a che fare coi numeri ma con le persone e la loro psiche».

Meglio la psicologia della finanza?
«Non diventi imprenditore solo per i soldi ma per soddisfare un bisogno profondo: per essere accettato, per ottenere un riconoscimento, per vincere, per esprimerti, per essere ascoltato, per ascoltare (in rari casi). Se capisci quello che l’altro cerca sai che cosa puoi offrirgli».

È il segreto del suo successo?
«Sì. Quando vendi a un altro devi chiederti: che cosa sta comprando davvero? Oggi, quando mi trovo davanti un contratto, cerco di leggerlo con gli occhi dell’altro. Mi chiedo: che cosa ne penserà?».

Sembra quasi buono...
«Il business efficace è empatia, l’abilità di mettersi nei panni dell’altro. Capire di che cosa ha paura, da che cosa è attratto o di che ha bisogno. E cercare di soddisfarlo».

Ha a che fare con molti giovani investitori. Come riconosce quelli giusti?
«Cerco i vincenti. Sono molto disciplinati, come gli sportivi. E ottimisti, perché altrimenti non potresti cadere, rialzarti e proseguire. E poi guardo l’albero genealogico».

Che c’entrano i parenti?
«Se un uomo ha avuto un rapporto problematico col padre, cioè l’autorità, e l’ha risolto in modo costruttivo, di sicuro sarà abile. L’imprenditore è uno che deve provare qualcosa».

È vero che le donne sono investitori migliori?
«Sì, perché sono meno sicure di sé. Il mercato è casuale, ma gli uomini pensano di riuscire a identificare un trend. Sono troppo sicuri e il mercato li punisce. A parte gli imprenditori naturali, che sanno sempre quello che devono vendere e comprare».

La gelosia è uno stimolo?
«Negli affari molto. Nella vita il confronto toglie felicità. Ma ci spinge ad arricchirci: preferiamo fare meno soldi, ma più di un altro, che farne tantissimi, ma meno di altri. Non ci interessa la ricchezza assoluta, ma il confronto con gli altri».

La fortuna quanto conta?
«È cruciale. Ma senza fatica la fortuna non busserà mai alla tua porta. Il motto di Paul Getty era: se vuoi avere successo alzati presto, lavora sodo e poi scopri il petrolio».

Ha qualche rimorso?
«Sono un ottimista, per me il processo conta più del risultato.

L’unico rimpianto è essere rimasto 25 anni nel mondo degli affari: non avrei le opportunità di oggi ma, forse, sono stati un po’ troppi».

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