Politica

UN’IDEA PER L’AFRICA

Non c’è settimana senza notizia che un ulteriore guaio s'è aggiunto ai consueti disastri dell'Africa. Stavolta è l'Economist a descriverci le università della Nigeria per mezzo di un loro studente. Il giovane non ricorda bene; ma ammette di aver ucciso sei o sette suoi colleghi affiliati a delle confraternite universitarie rivali. E ha inoltre intimidito insegnanti, bruciato le loro auto e rapito i loro figli, per estorcere voti. Non solo per sé ma per i membri delle gang in cui è evoluta la goliardia di quella nazione. Anzitutto a Port Arthur, capitale dello Stato più ricco, dove simili confraternite dilagano da un decennio. Una Facoltà di Ingegneria pare sia dovuta ricorrere all'uso di duecento guardie armate, col solo risultato però di spostare la violenza dalle aule alle strade. Dunque neppure l'istruzione può dirsi più una speranza dell'Africa nera. Il che avrebbe una sua logica conseguenza: ammettere che gli africani dopo circa due generazioni sono restati inabili ad autogovernarsi e lo resteranno. Senza cultura, burocrazia, intenti spirituali, l'esito sarà il proliferare di Mugabe, e delle sue repliche. Riprova d'infantilità e arbitrio selvaggio, però in furba recita perpetua d'ideologie resistenziali, di colpe date all'uomo bianco.
Quando invece i guai peggiori in Africa da decenni li fa ormai l'uomo nero. Come ammette persino Ahmadou Kourouma, scrittore africano, non sospetto di simpatie per le colonie: «Tribalismo, ovvero scelte di clan, corruzione, brutalità sono i peccati capitali dell'Africa; e l'espediente prediletto di dare la colpa agli altri dei disastri fatti in casa distrae dalle responsabilità proprie degli africani». E come non dargli ragione se si pensa a quanto leggiamo accadere con regolarità in Sudan, Somalia, Congo, Kenya, altrove. Né il Sud Africa fa eccezione: i pentimenti di quei bianchi, che da giovani erano militanti antiapartheid coi neri, sono cresciuti a dismisura. E però si è voluto minimizzarli; nelle pubblicità dilaga ancora il povero Mandela. Mentre il Sud Africa che era prima il più potente motore di benessere dell'Africa è ora il più potente vicino e complice di Mugabe. Ma per lo più si evita di ammetterlo.
Eppure la notizia dell'Economist è solo l'ultima di una serie orrenda che anni fa un giornalista di Die Zeit, Hans Christoph Buch, collezionò in un libro tradotto anche in Italia (Le repubbliche delle banane). Un libro di viaggi nell'orrore: a Monrovia, dove il soldato bambino gli risponde «Why not?», quando gli domanda perché massacra la gente; o tra le truppe di pace africane: «Invece di dividere le varie bande, presero parte pure loro a saccheggi e violenze. Prima di tutti i nigeriani che caricano container pieni di bottino - frigoriferi, televisori, auto e motorini - sulle loro navi...». E sempre là constata il successo con cui negli empori è venduta una cassetta di torture. La scena nel quale un capo dei ribelli tal Doe è ripreso mentre deve mangiarsi le orecchie appena tagliate viene salutata dagli spettatori con applausi e risa. E la Liberia mai ha conosciuto domini bianchi. Come Haiti è da tempo solo merito degli africani. Al pari di quanto è accaduto in Ruanda: non c'erano né petrolio, né oro, né diamanti. E c’erano pochi bianchi, per lo più missionari: gli ultimi restati a garantire col cristianesimo qualche civiltà in Africa.

Viene ovvio chiedersi se questi regimi neri possano davvero dirsi meglio delle colonie o di qualche amministrazione fiduciaria.
Geminello Alvi

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