Immigrazione di lotta e di governo

L'immigrazione di lotta e di governo. A Padova il centro-sinistra ha alzato addirittura un muro d'acciaio per «garantire la sicurezza» dei residenti, mentre a livello nazionale la sinistra estrema continua a sollecitare lo smantellamento dei Cpt, i Centri di permanenza temporanea. A Bologna il sindaco Sergio Cofferati ha prospettato la necessità degli sgomberi per gli insediamenti abusivi e del controllo persino dei lavavetri al semaforo, mentre il governo s'appresta a demolire la Bossi-Fini; sgombero soprattutto idelogico. Com'è stato spiegato dalle componenti radicali della maggioranza, questa legge sarebbe troppo dura con gli stranieri in arrivo sul ricongiungimento familiare e sull'obbligo del lavoro assicurato come condizione per entrare in Italia.
Sul pendolo che oscilla fra la tolleranza zero degli amministratori sul campo delle loro città e la voglia politica di rifare, cioè di disfarsi in fretta delle leggi promosse dal precedente esecutivo, è cascata la novità della cittadinanza: i noti cinque e ininterrotti anni di regolare soggiorno al posto degli attuali dieci come requisito perché i cittadini stranieri che lo richiedano possano diventare italiani.
Ma quanti sono stati gli elettori di centrosinistra a suo tempo informati della proposta di abbassare a cinque anni di residenza la facoltà per domandare la cittadinanza? Qualcuno per caso ricorda un grande e civile dibattito nel Paese tra favorevoli e contrari, fra quanti avrebbero potuto giudicare l'innovazione dell’Unione premiandola o punendola col voto? Di più: è stato oggetto di discussione almeno fra gli amministratori del centrosinistra, quelli che più si confrontano coi problemi di convivenza sul territorio? Persino a leggere il programma della coalizione oggi al governo, nessuno poteva scoprire il proposito. «L'acquisizione della cittadinanza è il più efficace strumento giuridico di cui le democrazie liberali dispongano», si spiegava nel verboso documento diffuso in campagna elettorale. «Per questo dobbiamo ridurre il periodo di attesa e consentire, in presenza di precisi requisiti previsti, l'acquisizione della cittadinanza su richiesta». Ma «ridurre il periodo di attesa» non significa dimezzarlo! Passare da dieci anni a cinque, vuol dire cambiare alla radice non solo la legge approvata nel '92 e fatalmente invecchiata con tutto ciò che è nel frattempo successo, ma significa pure voler creare un'identità «per forza», cioè non realistica, per i non italiani o non ancora italiani o nuovi italiani in procinto di diventarlo anche di diritto. Significa rispondere all'eccesso dei dieci anni - ché la burocrazia allunga ulteriormente, undici, dodici, tredici - con l'eccesso opposto della semplificazione priva di buonsenso: appena cinque anni di soggiorno, come se la residenza equivalesse di per sé alla certezza dell'integrazione, mentre sono il lavoro, la famiglia, i figli che frequentano le nostre scuole, la condotta da cittadini rispettosi della legge, la conoscenza della lingua italiana, la condivisione dei principi della Costituzione a fare di chiunque, ovunque sia nato, un «buon cittadino italiano». Non è il quanto, è il come ciò che conta. Non basta l'incanto del passaporto per italianizzarsi. Si dirà: nella proposta di legge sulla nuova cittadinanza si richiede (almeno) la conoscenza della lingua nazionale e un giuramento. Tutto qui? Sono sufficienti l'esamino e la promessa per liquidare la questione dell’identità, che è la grande questione del nostro tempo? Una questione che non s'affronta con l'accetta e senza passione civile, come se le persone e la storia delle persone potessero regolarsi con la magia della demagogia: il cinque al posto del dieci.
f.

guiglia@tiscali.it

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