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India, lungo lo "hippie trail" fino alla "casa" del Dalai Lama

Se c'è un posto dove sembra che la rotta hippie sia più viva che mai, questo luogo è in India, a Dharamsala, nell'Himachal Pradesh. O meglio a McLeod Ganj, dove ha sede il governo in esilio del Tibet

India, lungo lo "hippie trail" 
fino alla "casa" del Dalai Lama

nostro inviato a Dharamsala (India)

Se c'è un posto dove sembra che la rotta hippie sia più viva che mai, questo luogo è in India, a Dharamsala, nell'Himachal Pradesh. O meglio ancora a McLeod Ganj, il villaggio nove chilometri più a monte dove, tra l'altro, ha sede il governo in esilio del Tibet. Qui, a casa del Dalai Lama, il tempo sembra davvero essersi fermato agli anni '70 e al flower power. Merito anche di “his Holiness”, visto che molti occidentali arrivano qui sognando di incontrare il sovrano del Tibet, giunto in India dopo l’occupazione cinese di Lhasa, di cui quest’anno cade il 50esimo anniversario. Spesso chi arriva qui per fermarsi pochi giorni si ferma più a lungo, e finisce per dare una mano come volontario nelle strutture messe in piedi per accogliere i rifugiati che, ancora oggi, continuano ad arrivare dall’altra parte dell’Himalaya. Il passo successivo è il corso di meditazione, e c'è chi non si ferma a recitare il mantra Om mani padme hum, ma persiste e sposa la causa a tal punto da vestire il colorato abito dei monaci buddisti e votarsi alla divinità della compassione, Avalokitesvara, o Chenrezig per i tibetani, di cui appunto il Dalai Lama è la manifestazione.

Ma se la spiritualità “indotta” del luogo è il movente, altri carburanti fanno sì che qui, e altrove ai piedi dell'Himalaya, come nella non lontana Manali, si sia creata una comunità occidentale piuttosto radicata, che va in giro con i dreadlock (l'acconciatura rasta) in testa e i sandali ai piedi, indossando magliette psichedeliche e, spesso, gestendo attività commerciali, col risultato che qui sembra di stare in un generico “sotto casa”, visto che i minimarket locali vendono praticamente qualsiasi prodotto occidentale per soddisfare la domanda di turisti e residenti non indigeni.

Il risultato è un posto insolitamente schizofrenico, dove la mattina ci si sveglia al suono delle campane e dei canti dei monaci tibetani, che passeggiano sussurrando mantra tra le vacche e i tori che popolano le strade del villaggio, mentre di notte è la musica techno a rendere difficile addormentarsi. Un posto dove le buste di plastica sono bandite nel nome di una sacrosanta attenzione all’ambiente, ma dove a bordo dei sentieri di montagna non è difficile imbattersi in grandi discariche abusive. Ed è comunque piacevole passeggiare tra le scimmie che si avvicinano curiose, gli occasionali asceti sadhu che accovacciati a bordo strada vivono di elemosina, i negozi che vendono formaggio di yak e souvenir, oltre all’abbigliamento - in gran parte made in Nepal – che nella foggia tradisce il gusto occidentale. Insomma, rispetto agli anni '70 il retaggio hippie si è arricchito di capacità imprenditoriali. Che, a dirla tutta, spesso più che capaci sono cialtronesche.

Le guide, per esempio, mettono in guardia dai ciarlatani che si improvvisano esperti di yoga o di massaggi orientali solo per molestare qualche bella figliola, che arriva in India cercando l'illuminazione e trova invece una mano morta e poca luce, complici anche gli immancabili black out, una costante nel Subcontinente. Anche gli episodi di microcriminalità, soprattutto dopo il tramonto, non mancano, visto il crescente numero di tossicodipendenti, sia tra la popolazione locale che tra gli stranieri: con queste premesse non stupisce la presenza di due centri di assistenza per malati di aids, e il cartello che accoglie i visitatori all’ingresso di un tempio buddista nell’interessante Tsuglagkhang complex, dove c’è anche la residenza del Dalai Lama: “Accertatevi che le vostre scarpe non vengano rubate”. E di certo i ladri non sono i monaci. Ma non è il caso di diventare paranoici, alla fine McLeod è più sicura delle nostre grandi città visto che la maggior parte dei residenti sceglie metodi legali per tirare avanti.

Qualcuno, appunto, disegna, produce e vende vestiti. Molti organizzano corsi di tango (?), di cucina e di musica, lezioni di inglese, tatuaggi, arraggiandosi a fare qualsiasi cosa produca un minimo reddito, se non hanno una rendita da casa. Perché vivere qui, anche se ci sono internet, le feste after hours e la Nutella, non è proprio come vivere nelle nostre città. Una dignitosa stanza d'albergo per due persone costa dai 2 ai 7 euro a notte, una cena costa un euro scarso, e ne bastano 3 per noleggiare una moto Royal Enfield per 24 ore, assicurazione compresa. Facile capire che non sia solo la filosofia buddista ad attirare tra queste verdi vallate e bellissimi panorami montani centinaia di europei e di americani. E in questo mix molto hippie di slancio naif, entusiasmo genuino, opportunismo e deboscia, il quadro sociale è piuttosto interessante. C'e' l’avvocato californiano che ha perso il lavoro per la crisi, e invece di sedersi ad aspettare che il vento cambi, ha comprato un biglietto per Delhi, è arrivato quassù in bus e ora segue corsi di cucina tibetana, lavorando come insegnante d'inglese, gratis per i rifugiati e a pagamento per gli altri.

C'e' lo svizzero che è arrivato anni fa con moglie e figli, ha aperto un'agenzia che organizza spedizioni in montagna ed escursioni per gli amanti degli sport estremi e tenta di contrastare con la precisione elvetica la surreale burocrazia indiana. C'e' il tedesco che vive da vero hippie, dribbla le mucche e i tori che gironzolano per le strade del paese in sella a una vecchia Enfield, fuma marijuana in strada e gestisce una guesthouse in montagna, a mezz'ora a piedi dalla più vicina strada carrabile. Ma c’è un altro elemento che salta all’occhio sia a Dharamsala che a Manali: il passaggio di consegne tra chi nel bene o nel male persegue la filosofia hippie, e la mutazione genetica dei figli dei fiori: i ragazzi del banana pancake trail. Ossia la generazione che percorre una rotta diversa dal vecchio, codificato hippie trail, spuntando le caselle di quello che nel mondo anglosassone è noto come “banana pancake trail”.

Un percorso che si snoda nell’Asia centrale e sudorientale, dove unisce tutte le località turistiche che offrono un certo tipo di standard e comodità occidentali ai turisti con lo zaino. In questi luoghi, alcuni dei quali storicamente legati anche alla strada degli hippie, caffè e ristorantini vendono croissant, muffin e, immancabilmente, i pancake alla banana che danno il nome alla “nuova” rotta. In questo senso, McLeod Ganj appare un esemplare punto di contatto tra le vecchie idealità “peace and love” e il nuovo desiderio di “esperienza” on the road, per quanto un po’ plastificata. Difficile infatti che i ragazzini che oggi affollano i discopub in questo villaggio himalayano si avventurino sul serio su terreni meno battuti di quelli dettati dalle guide, col paradossale effetto che l’apprezzabile sforzo di voler conoscere una realtà molto diversa da quella in cui sono cresciuti li metta alla fin fine a confronto con un India, nel caso di specie, quanto meno edulcorata. E con una filiera turistica che si è modellata, e spesso snaturata, proprio per venire incontro alle esigenze dei giovani backpackers. Qui c’è un bivio invisibile tra la vecchia e la nuova rotta degli occidentali attratti dall’Oriente.

Ma se per qualcuno McLeod è un punto d’arrivo, per tanti è solo una tappa in un viaggio che non è finito, e forse non finirà mai.

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