Cronaca locale

In India fra poveri e lebbrosi «Sono loro i veri profeti»

In India fra poveri e lebbrosi «Sono loro i veri profeti»

Originario di Sesto San Giovanni ma cittadino indiano dal 1981, missionario nel subcontinente prima come studente di teologia e poi in mezzo a baraccati e i lebbrosi, padre Carlo Torriani si è laureato in Sociologia al Tata Institute of Social Studies, ha abitato negli slum, combattuto la lebbra a Bombay, aperto dispensari medici e un ospedale per malati terminali. E ha fondato Swarga Dwar («La Porta del Cielo»), una struttura di accoglienza per i lebbrosi che ha sede a 40 chilometri da Bombay: «Nella spiritualità indiana l’ashram è un luogo di ritiro e meditazione dove c’è un guru, un maestro, che ha un messaggio da trasmettere» spiega padre Carlo di passaggio a Milano come fa una volta all’anno. «A Swarga Dwar i lebbrosi rappresentano il guru. In India ho capito che non ero io a portare Gesù ai lebbrosi, erano loro che lo portavano a me. I lebbrosi sono le pietre scartate. E, come dice la Bibbia, la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo». Sorride quando ripensa ai suoi primi giorni in India, era il maggio 1969, Bombay la città di sbarco, una realtà da paura: «Me ne stavo barricato in casa per evitare quel fiume di persone in strada che mi causava un senso di soffocamento. Poi, poco a poco, o mangia “sta minestra…“». Lentamente il missionario del Pime si innamora del luogo, delle persone, di quella luce indiana che mostra sempre una sfumatura di crepuscolo anche a mezzogiorno. I giramondo della fede lo chiamano «processo di inculturazione». Padre Carlo lo ha vissuto in modo radicale e ora si sente più indiano che italiano. Si è levato di dosso la scomoda etichetta di «under consideration», sorvegliato dalle autorità, come ai tempi dei rinnovi del visto. A un certo punto capì che per evitare il pericolo di espulsione doveva diventare cittadino indiano. Fu nel 1978, quando fronteggiò la polizia per difendere i baraccati dallo sfratto. Eroe per caso: «Un giorno arrivano i camion del municipio e cominciano a caricare porte e finestre. Una donna, disperata, mi dice che le hanno portato via il tavolo nel cui cassetto teneva i risparmi. Mi avvicino per chiedere che almeno le restituiscano i soldi. Allora gli abitanti dello slum mi vengono dietro come un’onda e saltano sui camion per recuperare le loro cose». Giungono i rinforzi di polizia, chiudono i camion che finiscono alla centrale dove, a forza di manganellate, i rivoltosi vengono fatti scendere. «Per me che sono straniero - prosegue padre Carlo - c’è la minaccia di espulsione immediata. Ma intanto riesco a coinvolgere nelle trattative un mio ex professore indiano della Facoltà di Sociologia. Dopo un giorno di fermo, la polizia ci libera. Abbiamo vinto noi. Esco fra due ali di lebbrosi festanti, con una ghirlanda di fiori al collo». Già, i lebbrosi. Per il missionario lombardo «rappresentano l’immagine della morte, ecco perché vengono allontanati. Ma se ci parlano della morte allora sono come profeti. Attraverso la loro serenità i lebbrosi ci dicono che la morte non è la fine, è come una porta, un passaggio». Una transizione che padre Carlo indica in modo inusuale, attraverso le sue opere e nella vita a Swarga Dwar dove si celebra la Messa spezzando la noce di cocco come «gesto eucaristico» e una colonna della cappella ecumenica reca i simboli di tutte le religioni, ateismo compreso: «Se accetti il messaggio di Gesù Cristo anche tu sei cristiano, senza bisogno del battesimo.

Non ho mai incontrato una persona più cristiana del Mahatma Gandhi che volle rimanere indù fino alla fine: la non-violenza è il messaggio più profondo che Gesù Cristo, morto in croce, ci ha trasmesso».

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