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Gli inglesi dissero: «Eliminate il duce» Fu così che iniziò la Guerra fredda

Per una delle più vistose anomalie della memoria storica italiana, la ricorrenza del 25 aprile 1945 viene ricordata unicamente come l’anniversario della liberazione del nostro Paese dalla morsa della dittatura nazifascista, senza riflettere sul fatto che a pochi giorni di distanza da quella data si verificò un evento di ben superiore importanza. L’inizio della guerra fredda, infatti, ebbe luogo con l’uccisione di Mussolini, avvenuta a Giulino di Mezzegra, il 28 aprile. È in quest’ottica che va considerata l’esecuzione sommaria del duce avvenuta per mano di un gruppo di partigiani del Clnai assoldati dall’intelligence inglese, secondo un piano che, come risulta dai documenti conservati nei National Archives, era stato programmato subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia.
Già il 30 dicembre del 1940, l’ambasciatore di Sua Maestà a Sofia prendeva atto con soddisfazione che il Nunzio Apostolico residente nella capitale della Bulgaria aveva affermato che si sarebbe potuti arrivare «a ristabilire la pace in Europa solo dopo aver spodestato Mussolini». Ma, nel gennaio del ’43, il ministro degli Esteri Anthony Eden sosteneva che questa misura non appariva sufficiente e che bisognava invece prendere in considerazione l’eliminazione fisica del duce «se veramente si voleva cacciare l’Italia fuori del conflitto il più rapidamente possibile». Per portare a termine questo disegno, il War Cabinet si attivava sul fronte diplomatico, diramando a tutte le potenze neutrali, il 5 luglio, il minaccioso avvertimento di non concedere asilo politico né a Mussolini né Hitler, in quanto il governo inglese aveva stabilito che «i due arcicriminali dovevano esser fatti fuori senza essere sottoposti a un regolare processo, dinnanzi ad una corte internazionale, che per i suoi formalismi giuridici si sarebbe tramutato in un’interminabile farsa che avrebbe sortito il solo effetto di attirare la simpatia dell’opinione pubblica sui due accusati».
Lo stesso monito veniva reiterato, il 9 novembre, con l’avvertenza che «qualora i leaders nazisti e fascisti fossero stati catturati dalle forze armate britanniche, essi sarebbero stati passati per le armi, subito dopo la loro identificazione, nello spazio di appena sei ore». Dell’assoluta indisponibilità a risparmiare la vita di Mussolini, anche dopo il suo rovesciamento, i britannici avevano, inoltre, dato notizia all’emissario italiano Fransoni, giunto in aprile a Lisbona, per metterli al corrente dell’imminente golpe del 25 luglio.
Questi propositi si scontravano tuttavia con i deliberati della Dichiarazione di Mosca dell’ottobre ’43, nella quale Usa, Regno Unito, Urss e Cina si erano impegnati a processare i criminals wars dell’Asse. Su questo punto si accendeva tra gli Alleati un durissimo contenzioso. Durante un colloquio con Stalin, avvenuto nell’ottobre del ’44, a Mosca, Eden veniva informato che il Cremlino era contrario all’idea inglese di passare per le armi le gerarchie fasciste e naziste prima di averle sottoposte a un pubblico e formale procedimento giudiziario. Anche il presidente Roosevelt sposava questa posizione il 9 aprile ’45, consigliato dal suo consulente legale, il giudice della Corte d’appello dello Stato di New York, Rosenman. Rimasta isolata, Londra iniziava una convulsa contro-offensiva diplomatica che culminava, il 16 aprile, in una dettagliata relazione in cui si sosteneva che, una volta condotti Hitler e Mussolini dinnanzi alla sbarra di un tribunale, «essi avrebbero potuto cambiare le carte in tavola e diffondere notizie false e tendenziose con l’intenzione di porre i germi di future divisioni tra le Potenze che avevano determinato la loro sconfitta».
Ma né il primo ministro inglese né i suoi colleghi di gabinetto riuscirono a spuntarla. Nei giorni immediatamente precedenti la definitiva caduta della Repubblica Sociale Italiana, il comando statunitense impartiva agli agenti dell’Oss operanti in Italia l’ordine di salvaguardare in ogni modo la vita del duce e intimava alle forze del Cnl di attenersi a questa linea di condotta. Più che le raccomandazioni americane poté comunque l’abilità del Soe britannico che, infiltratosi nelle formazioni della resistenza, che avevano «liberato» Milano, già evacuata dalle truppe tedesche, senza praticamente sparare un sol colpo, riuscì a reclutare i volenterosi ascari del delitto politico ordito da Churchill e da Eden.
Da quanto detto, la tesi della «pista inglese», portata avanti nei lavori di Luciano Garibaldi, esce sicuramente rafforzata. Alla volontà di Londra di far scomparire con Mussolini le prove compromettenti delle manovre di Churchill per evitare l’ingresso dell’Italia nel conflitto, promettendole una ricca fetta della torta coloniale francese (proposte di cui resta una corposa testimonianza nelle carte dei National Archives) si contrapponeva quella russa, e in subordine quella statunitense, di mettere in scacco la Gran Bretagna nella futura competizione internazionale, accumulando contro di essa prove del suo spregiudicato comportamento durante le ostilità.
Negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, la cold war, come si è detto, era di fatto già iniziata e si sviluppava nella frenetica attività dei vincitori di carpire ai Paesi vinti non soltanto scienziati e tecnologia militare, ma anche dossier riservati da utilizzare contro i propri alleati, ormai destinati a divenire i competitori e i nemici di domani. Anche in questo caso, i servizi britannici ebbero partita vinta, riuscendo a mettere le mani sul voluminoso fascicolo della corrispondenza diplomatica russo-germanica degli anni 1939-40, dove erano tracciate le linee guida della spartizione dell’intera Europa orientale sotto un condominio congiunto nazista e sovietico.


eugeniodirienzo@tiscali.it

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