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Le primarie secondo Vendola tra poesie e frasi senza senso

Il linguaggio di Nichi stravince per oscurità e astrattezza. E sul web la sua campagna è riscritta a colpi di parodie

Le primarie secondo Vendola tra poesie e frasi senza senso

Alle primarie del barocco democratico non ci può essere gara. Vince, stravince in partenza il poeta di Terlizzi, l'immaginifico governatore della Puglia (laddove il sì suona con la zeppola), Nichi il comunista ermetico. Altri si candidano in camper, Vendola si libbra sulle ali della metafora, incanta le masse con costruzioni ellittiche al limite della comprensibilità umana, mentre la campagna-slogan «Oppure Vendola» è già oggetto cult di parodie. Il suo discorso di candidatura alle primarie del Pd, dal Museo archeologico virtuale di Ercolano, è un vaso colmo di perle vendoliane, sempre monitorate dalla mitologica rubrica «Nichi ma che stai a di'?» di Cerasa sul Foglio.

Più che un comizio una pièce teatrale d'avanguardia. Uno si aspetta che parli di Renzi o Bersani, invece parte da «i gas, le ceneri, il fuoco del vulcano e gli insediamenti umani nell'area vesuviana», per dire poi che «qui», cioè lì a Ercolano, ma è un qui poetico, c'è «la catastrofe incombente, come un pensiero estremo che ci spinge a cercare un riparo», che però si badi bene, «non troveremo nella fredda tecnica», ma che ci sorprenderà «nell'abbraccio solidale, nella rete cooperante, nella “catena umana” che rimbalza come luce assoluta dal buio della disperazione laica de La Ginestra di Leopardi». Dopo altri passaggi di vulcanologia applicata, Vendola riemerge in superficie. Ma si fa per dire, siamo sempre nelle profondità insondabili. Come quando osserva che «il Belpaese è diventato progressivamente un vuoto a perdere, la coscienza storica che aveva accompagnato le culture politiche nella ricostruzione post-bellica è stata a poco a poco surrogata da un revisionismo pettegolo e strapaesano, la nozione di bellezza – così drammatica, così sorgiva, così gravida di passioni – che aveva agitato la tavolozza dei pittori e il pentagramma dei musicisti viene ridotta alle curve delle veline, viene venduta a spot dai trafficanti di surrogati di felicità, un feticismo incolto irrompe nel nostro immaginario già inaridito dalla penuria di qualità del lavoro – noi umani, cose tra le cose».

Per battere Renzi, Vendola propone «una cultura della vita e del cambiamento che sappia ispirarsi al codice di destrutturazione della violenza, del suo fascino, dei suoi simboli». Solo così si può uscire da questa «guerra dei 30 anni, dove il capitalismo dell'impresa che ambisce a sciogliersi come il sangue di San Gennaro, per diventare rendita, mentre fugge dai luoghi reali della produzione, intima alla democrazia una sorta di resa». In un sussulto di banalità Vendola arriva a chiedersi, «sto forse esagerando?», prima di finire come Kierkegaard: «C'è chi dice e, e. Io dico o, o. Aut aut». Sull'«oppure» la sua fidata agenzia di comunicazione (la stessa che ha lavorato per Bersani nel 2009) ci ha costruito lo slogan. Che ha subito ispirato fotomontaggi sfottò, ben poco poetici. Dal «Liscia o gassata-Oppure Vendola» a «La solita aria fritta-Oppure Vendola» oppure «Le nuove mappe dell'iPhone. Oppure Vendola». Autori chiaramente «ridotti a funzione precaria di una società spoglia di umanità», quando sarebbe così semplice ritrovare la strada, basterebbe smetterla di «isolare il lavoro come un mero epifenomeno del caos, come escrescenza del ciclo produttivo muto». Oppure «spegnere i rancori e accendere le passioni, capovolgere l'onnipotenza feroce dell'ordine costituito nella potenza mite della democrazia».

Oppure Renzi o Bersani.

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