Politica

Il Pd ostaggio dei rottamati

Hanno fatto le primarie per innovare, ma i dinosauri sono tutti candidati. Col seggio sicuro Vertice Berlusconi-Maroni: Pdl e Lega sempre più vicini

Il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani
Il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani

Una cosa è il marketing elettorale, e un'altra cosa è il prodotto che verrà somministrato agli elettori. Una cosa è la democrazia praticata fra gli applausi a favore di telecamere, e un'altra è la gestione ordinaria e ordinata del potere. Insomma, una cosa sono le primarie per i candidati del Pd al prossimo Parlamento, e tutt'altra cosa sono i candidati veri del Pd, quelli cioè che entreranno fisicamente nel prossimo Parlamento. Basta scorrere la «mappa dei capilista» pubblicata ieri dall'Unità per rendersene conto.

Fra i meriti maggiori di Pier Luigi Bersani ve n'è uno che non gli viene riconosciuto, che anzi gli viene spesso negato, e che invece è la chiave di volta per comprendere l'operazione politica che ha condotto da che è segretario del Pd: la comunicazione. Pochi come Bersani hanno saputo costruire un'immagine di sé e della propria «ditta» così lontana dalla realtà. E pochi, persino tra gli avversari, hanno saputo riconoscere in tempo quanto spietata e inesorabile fosse la macchina del partito, perfettamente oliata e rigorosamente disciplinata.

Dietro la bonomia emiliana, la disponibilità al dialogo, l'understatement confinante con la mediocrità che hanno reso Bersani così rassicurante, c'è in realtà un leader tenace e poco disposto ai compromessi, e soprattutto determinato a trasformare l'«amalgama mal riuscito» (così D'Alema definì il Pd all'indomani delle dimissioni di Veltroni) in un esercito ben ordinato e ben equipaggiato di fedelissimi.

I «vecchi» sopravvissuti alla decimazione - Bersani ogni giorno accende un cero a Matteo Renzi per grazia ricevuta - sono ridotti dallo scampato pericolo al silenzio e all'obbedienza; i «giovani» provengono tutti rigorosamente dalla covata bersaniana di questi anni, e la loro carriera dipende integralmente dalla lealtà al segretario e dal suo successo personale. Persino Renzi, l'homo novus estraneo alla cultura e alle logiche dell'apparato, è stato riassorbito nel pantheon bersaniano, dove è libero di giocare la sua partita lungo i confini del regno purché, s'intende, non ne fuoriesca mai. E il capolavoro politico e comunicativo consiste nel far apparire tutto ciò come un profondo rinnovamento frutto di un rigenerante bagno democratico.

Guardando la mappa dei capilista l'impressione è dunque sconcertante, perché dopo tre mesi di primarie i nomi sono più o meno sempre gli stessi di sempre, e il volto collettivo che il Pd presenta all'elettorato va ben oltre l'«usato sicuro» - parola-chiave del bersanismo reale perché civettuola rivendicazione dei propri limiti - per sprofondare nell'archeologia di quella Seconda Repubblica che tutti, a parole, vorrebbero lasciarsi alle spalle.

Capolista in Piemonte sarà Cesare Damiano, ex sindacalista ed ex ministro nei governi di centrosinistra; in Veneto l'ex giovane Enrico Letta; in Emilia l'inaffondabile Dario Franceschini. In Abruzzo troveremo il granitico Franco Marini, entrato in Parlamento quando esisteva ancora la Democrazia cristiana; in Umbria un altro ex sindacalista di lunghissimo corso poi passato alla politica, Guglielmo Epifani; in Puglia Anna Finocchiaro, fuggita dalla natìa Sicilia per conquistare la sua sesta legislatura. In Calabria guiderà la lista del Pd un'altra fuggitiva, Rosy Bindi, a Montecitorio dal '94 dopo cinque anni all'Europarlamento, in coppia con Marco Minniti, già sottosegretario del governo D'Alema; in Sicilia, infine, quel giovanotto di Beppe Fioroni. Nelle altre regioni principali (Lombardia e Lazio) ci sarà direttamente Bersani.

Panorama sconcertante e iperrealista, almeno per chi s'era illuso sulla possibilità che questa volta la sinistra, approfittando dello sfacelo del campo avversario, riuscisse a presentare una proposta e un personale politico accattivanti per l'insieme dell'elettorato. Bersani ha scelto invece di presidiare la propria metà campo, corazzandola.

E tanto peggio per chi è fuori.

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