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Gli alfaniani evocano la crisi per fare sapere che esistono

Il Nuovo centrodestra minaccia di mollare Letta in caso di maggioranza alternativa sulle riforme. Napolitano prova a mediare mentre la legge elettorale passa dal Senato alla Camera

Gli alfaniani evocano la crisi per fare sapere che esistono

Enrico no, gli ha detto Napolitano, almeno per ora lui lascialo perdere, non può cadere adesso. Così Renzi si sfoga con gli alfaniani. E i primi schiaffi del sindaco fanno male: Pd, Sel e grillini votano insieme lo spostamento dal Senato alla Camera della legge elettorale e fanno così le prove generali di una nuova maggioranza sulle riforme. In serata un vertice Boldrini-Grasso ratifica la scelta: sistema di voto a Montecitorio, lifting istituzionale a Palazzo Madama. Ncd è alle corde, quasi irrilevante, e accusa il colpo. Gaetano Quagliariello prova a fare la voce grossa. «La riforma - avverte - si può fare solo se diventa parte di un accordo di governo. O si trova un'intesa entro la Befana, o ci sarà la crisi».
Allarme rosso. Il Consiglio dei ministri si riunisce con urgenza ma non a Palazzo Chigi bensì al Quirinale, che in realtà sarebbe la sua vera sede. La colazione di lavoro, fissata da tempo per discutere del prossimo vertice europeo a Bruxelles, si trasforma subito in un gabinetto di guerra. Il capo dello Stato mercoledì ha ricevuto Matteo Renzi e per due ore ha cercato di addomesticarlo. Ora tenta la stessa operazione con gli alfaniani. Una mediazione che il Colle considera «necessaria»: secondo il presidente infatti è impossibile pensare che l'esecutivo possa andare avanti se l'azionista di maggioranza, il Pd, si metterà di traverso. Meglio cercare un'intesa.
Ma sul sistema di voto c'è poco margine di trattativa. Al di là del modello, è l'iniziativa la questione centrale. O Palazzo Chigi riesce a partorire una sua legge, oppure, se sarà costretto a lasciare la palla al Parlamento, si ritroverà presto a fine corsa. Poi c'è il particolare dei tempi. Renzi ha fretta, se non di fare il premier, almeno di portare a casa qualche risultato. Letta invece non ha alcun interesse ad accelerare la pratica.
Di tempo, parecchio, ne hanno bisogno pure gli alfaniani per non farsi stritolare alle urne. E se dal Parlamento uscisse una legge elettorale con una soglia di sbarramento alta, diciamo il cinque per cento, che fine farebbe Ncd? Dovrebbe tornare a Canossa dal Cavaliere. Da qui la frenata di Quagliariello. «Ma cosa può interessare al cittadino se la legge elettorale va alla Camera o al Senato? Nessuno può fare le riforme prescindendo dal governo».
Matteo, dice in sostanza il ministro, si deve dare una calmata. «Nei prossimi 10-15 giorni, ossia al massimo per la Befana, la maggioranza o trova un accordo sulla legge elettorale o va in crisi e allora ognuno si prenderà le sue responsabilità». Minaccia vera? Chissà. «Io penso - aggiunge Quagliariello - che oggi arrivare al presidenzialismo, che è la forma che io preferisco, per i tempi che abbiamo, ossia 18 mesi, non sia possibile. Invece l'elezione diretta del premier, per cui al secondo turno il cittadino sceglie chi è il presidente del Consiglio con un'investitura popolare, è il modello più compatibile con il nostro assetto».
I centristi provano a resistere. Fabrizio Cicchitto sostiene che «il confronto non va fatto a colpi di ultimatum». Intanto perdono la partita del calendario. A Pietro Grasso e Laura Boldrini basta mezz'oretta per «un'equilibrata condivisione dell'impegno riformatore». Traduzione: la legge elettorale passa all'esame della Camera, come vuole Renzi, ma la riforma costituzionali proseguiranno al Senato, dove, sempre secondo Matteo, «in questi mesi è stata lasciata lievitare come una pizza». Lo schiaffo è per Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali.

Però si lamenta Pier Ferdinando Casini: «Il Senato è stato scippato».

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