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Arriva la sfida Salvini-Bossi così la Lega 2.0 volta pagina

Al voto 17mila militanti per scegliere il segretario federale. Favorito il giovane milanese che già ridisegna i vertici: Senatùr presidente, incarichi di prestigio a Giorgetti e ai veneti

Arriva la sfida Salvini-Bossi così la Lega 2.0 volta pagina

Milano - Umberto Bossi ancora presidente della Lega e un ruolo di vertice per l'ex sottosegretario nel governo Berlusconi Giancarlo Giorgetti voluto anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella squadra dei «saggi». Ma incarichi di prestigio anche per i gemelli-coltelli veneti Luca Zaia e Flavio Tosi nel nuovo organigramma disegnato ieri sotto le architetture griffate Gae Aulenti della stazione Cadorna di Milano da Matteo Salvini, uno dei due candidati alle «primarie» in programma oggi per decidere il successore del governatore Roberto Maroni che si dimette da segretario per dedicarsi a tempo pieno alla Regione Lombardia. Di fronte al quarantenne Salvini («ma basta paragonarmi a Renzi, io con lui non ho proprio niente in comune»), il carisma di un Umberto Bossi che vuol riprendersi la sua creatura e non ha nessuna intenzione di ritirarsi a coltivare l'orto a Gemonio. Ma dovesse perdere nemmeno se ne andrà, come vanno seminando zizzania i suoi pasdaràn, a fondare un nuovo partito magari sulla scia dell'associazione «Padania libera» del fedelissimo Giuseppe Leoni. Salvini, però, da favoritissimo non ha nessuna intenzione di alzare i toni. «Bossi è Bossi - ripete - Mai una parola contro. Per Bossi lo spazio c'è e rimarrà». Perché «non si può essere contro Bossi: è il papà di tutti, ha risvegliato coscienze e orgoglio del Nord. Se siamo qua è grazie a lui. E Bossi stesso ci ha insegnato che bisogna sempre guardare avanti. Chiunque vinca è un voto per un progetto». Sull'altra barricata i nostalgici dell'era Bossi si sono raccolti sotto lo slogan «Ricominciare da... capo», il calembour modellato sull'appellativo di Capo con cui da sempre i leghisti chiamano Bossi. E se a vincere sarà, come sembra, Salvini, il suo primo Everest da scalare sarà proprio il mito del fondatore. Un complesso di Edipo problematico da smontare, anche se i colonnelli sembrano aver già voltato pagina. Con Salvini è Maroni che più volte ha invitato a votare per lui. Ma anche il varesino Giorgetti che ha evidentemente superato le barriere geografiche sdoganando (e per la Lega il passo non è da poco) il milanesissimo «Teo». Ma anche dal Veneto i segnali sono chiari. «La Lega - ha sentenziato ieri Tosi - deve dimostrare di saper voltare pagina e questo lo può fare solo con un candidato giovane che possa esprimere un segnale di netto cambiamento». Perché il peso dei diamanti e dei Belsito è ancora pesante. «Non è una resa dei conti - assicura Tosi - ma dovrebbe essere una svolta. C'è un passato anche glorioso con Umberto Bossi che ha portato la Lega a grandi traguardi, c'è però una parte finale che assolutamente gloriosa non è». E Salvini ricambia promettendo che «metà del mio tempo, se sarò segretario, lo passerò proprio in Veneto». Lì dove sono già 150 i comuni pronti a votare il referendum per l'indipendenza. Termine per un certo tempo archiviato nel vocabolario leghista, ma che Salvini è pronto a dissotterrare quasi fosse un'ascia di guerra. «Abbiamo provato a cambiare passando da Roma, ma è stato tutto inutile. Le riforme non passano di certo da lì». E allora? «Tutto partirà dal referendum per l'indipendenza del Veneto e dalla guerra all'euro che ormai è diventato il marco tedesco». E proprio per questo sono pronti i contatti con il teorico dell'antiglobalizzazione Alain De Benoist (l'anima un tempo della Nouvelle droite francese) e il patto con il Front national di Marine Le Pen che sarà ospite della Lega al congresso di Torino e probabilmente alleata alle prossime elezioni europee. Insieme a tutti gli euroscettici. «Sono brutti e cattivi secondo tanti - ha detto Salvini - Sono Marine Le Pen, sono gli austriaci, sono gli olandesi, sono i russi, ci saranno anche i parlamentari di quel cattivone di Putin». E per chiudere la stoccata a Napolitano. «Che l'Italia sia uno stato fallito è evidente anche dal fatto che la Consulta ci mette otto anni per definire incostituzionale una legge. Un governo serio si sarebbe già dimesso, un presidente della Repubblica serio si sarebbe già dimesso.

Ma l'Italia non è un Paese serio».

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