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Berlusconi sfida la Procura in aula. "Mai sesso nelle cene a casa mia"

Caso Ruby, il Cavaliere si presenta in udienza per fare dichiarazioni spontanee. "Da vent'anni Milano indaga invano su di me, spero i giudici siano imparziali"

Berlusconi sfida la Procura in aula. "Mai sesso nelle cene a casa mia"

Milano - Sfiducia, totale e irrecuperabile, nella Procura della Repubblica di Milano, protagonista di vent'anni di inchieste ai suoi danni. E anche - questo era meno scontato - una riserva esplicita sull'obiettività del tribunale, dei tre giudici chiamati tra pochi mesi a pronunciare la sentenza sul caso Ruby, e che «secondo alcuni giornali avrebbero già deciso di condannarmi». È un Silvio Berlusconi assai agguerrito quello che si materializza alle nove e mezza di ieri mattina nell'aula del tribunale di Milano dove si celebra il processo a suo carico per concussione e prostituzione minorile.

Per la prima volta da quando questo gigantesco intrigo è iniziato, Berlusconi fornisce formalmente la sua versione. È la versione già resa nota in tante dichiarazioni ai mass media. Inedito è invece il dubbio avanzato sulla obiettività del tribunale presieduto dal giudice Giulia Turri, che potrebbe avere già deciso la sentenza: «Spero che non sia vero, perché un paese dove la giustizia non fosse imparziale sarebbe un paese barbaro e incivile. Non sarebbe una democrazia». Le tre giudici ascoltano, apparentemente impassibili.
Prima e dopo il suo intervento, Berlusconi si mostra sorridente e cordiale. Stringe la mano a Ilda Boccassini, procuratore aggiunto e sua grande accusatrice. Si concede con lei anche una battuta, e la Boccassini ride di gusto. Ma quando prende il microfono, il registro cambia di colpo. Alla scorsa udienza, i difensori avevano annunciato che il Cavaliere avrebbe rifiutato di farsi interrogare, ma avrebbe reso quelle che il codice chiama «dichiarazioni spontanee», ovvero un monologo. Ed ecco come ieri Berlusconi spiega ai giudici la sua scelta: «Avrei preferito rendere interrogatorio. Ma la storia di questi vent'anni di accuse della procura di Milano nei miei confronti non me lo ha consentito. Sono disponibile a farmi interrogare da chi ponga domande essendo davvero interessato alle mie risposte». E questo, intende Berlusconi, non è il caso della Procura di Milano.
Poi ecco i dubbi sulla serenità del collegio giudicante: «Si legge su alcuni giornali che questo tribunale avrebbe già deciso per la mia condanna. Io non voglio credere che sia così. Se in un paese non ci fosse la certezza della imparzialità dei giudici, questo paese sarebbe barbaro, incivile, non più una democrazia. Per questo ho deciso di rilasciare queste dichiarazioni spontanee illustrando i fatti nella loro concreta realtà».

E i fatti, dice Berlusconi, sono semplici: in occasione delle feste di Arcore non avveniva nulla di neanche vagamente sessuale; non ho mai pagato, né ad Arcore né altrove, per avere rapporti intimi; con Ruby, alias Kharima el Mahroug, non c'è mai stato niente. Di conseguenza, non avevo niente da temere dalle dichiarazioni di Ruby, e quando intervenni sulla polizia milanese, il giorno del suo fermo, lo feci solo per scongiurare problemi diplomatici con il presidente egiziano Hosni Mubarak. Perché - ed è così che anche questo controverso passaggio della versione del Cavaliere entra ufficialmente negli atti del processo - ritenevo davvero «che potesse appartenere ad una delle tante famiglie imparentate con Mubarak».

Nella ricostruzione di Berlusconi, insomma, il Rubygate si riduce ad una gigantesca costruzione sul nulla, che si è tradotta, però, in una «mostruosa opera di diffamazione ai danni miei e delle mie ospiti». D'altronde, sostiene il Cavaliere, «ipotizzare che volessi tenere segreto il contenuto di quelle serate è risibile, la mia vita privata è sempre stata oggetto di spasmodica attenzione mediatica, con pubblicazione di intercettazioni e reportage fotografici che violavano la mia privacy».
Berlusconi parla per quasi venti minuti, seguendo una traccia scritta. Poi si siede ad ascoltare i testimoni a difesa, quasi tutti appartenenti al suo personale di scorta e di servizio, concordi nell'escludere di avere assistito a scene piccanti a Villa San Martino. Ad un certo punto, chiede di riprendere la parola per spiegare ai giudici come è fatta la casa, dov'è il salone, dove la taverna, dove la sua camera da letto. Poi ci ripensa. E se ne va, schivando i cronisti.

E adesso? Con l'intervento di Berlusconi, il processo è sostanzialmente finito. La difesa ha ancora un congruo numero di testi da convocare, ma - a meno di clamorose sorprese - difficilmente cambieranno il quadro complessivo: la «pistola fumante», la prova decisiva dei reati contestati al Cavaliere per adesso in aula non s'è vista. Quando anche gli ultimi testi saranno sfilati in aula, la parola passerà alla requisitoria e alle arringhe difensive. Poi la sentenza.

E si vedrà se i dubbi di Berlusconi erano fondati.

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