Politica

Bersani punta al trucco delle astensioni

Veltroni implora di "salvare il partito". Tutti contro Mineo, ultrà del segretario

Bersani punta al trucco delle astensioni

«Salviamo il Pd», implora chi lo ha fondato. Sono toni dolenti e allarmati, quelli che Walter Veltroni usa nella sua «lettera aperta» (via Repubblica) alla dirigenza di un partito che vede scivolare verso la cupio dissolvi scissionista. Nella quale denuncia un arroccamento a sinistra del Pd, il risorgere di nostalgie per le vecchie bandiere, quella del Pci in primo luogo: «La parola democratici è sparita dal vocabolario del Pd. È stata sostituita dalla più rassicurante autodefinizione di “progressisti” che, davvero al di là degli sfortunati precedenti, allude al fatto che sì siamo cambiati, ma in fondo siamo sempre noi», i comunisti d'antan. Veltroni invita a riscoprire «la vocazione maggioritaria» senza la quale «il Pd non esiste». E spiega di temere che al contrario prevalga una vocazione identitaria che vuol portare a spingere fuori, come corpi estranei, i non ex-Pci. Un nome per tutti, quello di Matteo Renzi.

È in un clima sempre più cupo e caotico che si riuniscono, oggi, i gruppi parlamentari convocati da Pier Luigi Bersani. Un'assemblea nella quale difficilmente verranno allo scoperto - mentre ancora sono in corso le grandi manovre per eleggere il prossimo presidente - i dissensi, pure forti, che covano nel Pd. Su questo conta il segretario, che a sua volta scrive a Repubblica per spiegare che il famigerato «governissimo», ossia un'intesa Pd-Pdl per far partire un governo, lui non lo farà mai, e per sfidare chi invece lo vuole (ossia la gran parte dei capicorrente, sinistra esclusa) a dirlo chiaramente e a chiedergli di farsi da parte: «Non intendo certo essere di intralcio». Spiega Bersani di volere un governo che «possa agire univocamente» e non basato su «precarie composizioni di forze contrastanti». E cosa intenda l'involuta lingua bersaniana lo spiegava ieri, ad esempio, l'Unità, evocando un governo monocolore di minoranza come quello di Andreotti nel '76, che si reggeva sull'astensione del Pci. Quindi grandi aperture a Berlusconi su presidente della Repubblica «condiviso» e riforme, ma in cambio il Cavaliere deve dare una mano per mandare Bersani a Palazzo Chigi, ma senza farsi vedere.

E non a caso ieri, dopo le parole di Napolitano che (ricordando Gerardo Chiaromonte) ha sottolineato «il coraggio di quella scelta inedita di larga intesa», rievocando il '76, i bersaniani sottolineavano entusiasti il riferimento. Rivendendoselo come un via libera al loro progetto di astensioni concordate con Pdl, Lega e Grande sud per dar vita al gabinetto Bersani. Peccato che nel frattempo, preso dall'entusiasmo pro-Bersani, il neo parlamentare ex Rai Corradino Mineo si fosse scagliato contro Napolitano, reo di essersi assunto «una responsabilità gravissima» a non affidare un incarico pieno al segretario Pd, ostacolando la nascita (non si sa con che voti) dell'ormai celebre «governo di cambiamento». Contro Mineo però si sono scagliati democratici di ogni sponda, da Nicola Latorre ai renziani Anzaldi e Marcucci, dal veltroniano Tonini al lettiano Meloni: «Mineo si ricordi che rappresenta il Pd, e che Napolitano sta gestendo la crisi nel modo migliore possibile».

Intanto Bersani pensa alla sua manifestazione «contro la povertà», organizzata di corsa per fare da contraltare alla piazza berlusconiana di Bari. Il Pd però preferisce abbassare le aspettative e riunirsi in un teatro (proprio come alla fine della campagna elettorale, con la kermesse dell'Ambra Jovinelli). La fretta però è cattiva consigliera, e nel Pd di Torino scoppia la polemica per l'inclusione del quartiere di San Salvario, regno della boheme chic sotto la Mole, tra le zone degradate modello Scampia chiamate a raccolta dal manifesto Pd: «Un'idea banale, offensiva e controproducente, addirittura un'operazione cinica», si indigna col Nazareno Ilda Curti, assessore alle periferie di Piero Fassino.

L'organizzatore Stumpo si difende: «La povertà ha tante facce».

Commenti