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Bersani si monta la testa Ha solo vinto le primarie e già si sente premier

Dopo aver vinto le primarie Bersani annuncia: "La prossima avventura è il governo: ora ci si mette al lavoro per allestire il programma". Ma si sente già a Palazzo Chigi. E vola in Libia da vero capo di governo. Ma il programma è un dettaglio da discutere in un paio di convegni

Il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani
Il segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani

Dopo le lunghe malefatte del berlusconismo e la breve, necessaria stagione dei tecnici, l'Italia ha finalmente un presidente del Consiglio all'altezza dei tempi e delle sfide che attendono il Paese: il compagno Pier Luigi Bersani. D'accordo, le elezioni non ci sono ancora state, e non sappiamo neppure con quale sistema elettorale si voterà: si tratta però di un dettaglio secondario, che potrà appassionare politologi e sondaggisti, ma che certo non cambia la situazione. D'accordo, viviamo in una repubblica parlamentare e il premier non lo eleggono i cittadini, lo indica il capo dello Stato: ma anche questa è una minuzia, roba da costituzionalisti. Bersani al governo c'è già: lo hanno deciso le primarie.
Era più o meno questa l'aria che si respirava ieri a Largo del Nazareno, dove il Pd ha celebrato se stesso e il proprio leader con la spensierata convinzione che il più sia fatto, e che la strada per palazzo Chigi sia ormai nient'altro che una formalità. «La prossima avventura è il governo: ora ci si mette al lavoro per allestire il programma», ha dichiarato Bersani prima di volare in Libia. Ma anche il programma, in fin dei conti, è un dettaglio da discutere in un paio di convegni per soddisfare l'esibizionismo di qualche intellettuale.
Il viaggio in Libia, invece, è da vero capo di governo: servirà nientepopodimenoché, ha annunciato l'altra sera lo stesso Bersani ai militanti in festa, a restituire all'Italia un ruolo-chiave nel Mediterraneo. Perché Bersani è uno che fa le cose, e non le lascia mai come le ha trovate. Chissà Terzi che ne pensa. Ma anche questa è una quisquilia, roba da staff: il vero ministro degli Esteri, come ha già annunciato Vendola domenica, è D'Alema.
D'accordo, le primarie sono state un successo: ma hanno coinvolto quasi esclusivamente la parte più attiva dell'elettorato tradizionale, e cioè una minoranza della minoranza. Bersani ha raccolto all'incirca un milione e 700mila voti: sono tanti, ma gli elettori che a marzo andranno alle urne sono più o meno cinquanta milioni. Se pure un terzo di loro si astenesse, resta pur sempre una trentina di milioni di italiani da convincere. Molti, e forse troppi persino per lo «squadrone» che il leader del Pd ha preannunciato (senza Renzi, però, perché il sindaco di Firenze darà sì «una mano», ma soltanto «da militante») e che dovrebbe comporsi di un mix più o meno sapiente di vecchie glorie, tecnici e giovani turchi. Ma niente paura: il leader è pronto a questo e ad altro.
Già, fa un certo effetto vedere che il Pd, impegnato per vent'anni in una battaglia del tutto legittima contro il presidenzialismo e, soprattutto, il personalismo in politica, si scopra ora ad un passo dal culto della personalità un tempo così in voga nei paesi dell'Est. Sul sito dell'Unità è comparsa ieri una «Bersani story per foto e video» - titolo: «Il chierichetto diventato leader» - che comincia con parole che paiono una versione 2.0 della miglior propaganda sovietica: «Se provate a digitare il suo nome su Google troverete oltre 2 milioni e mezzo di risultati». La Storia italiana inviata a suo tempo da Berlusconi a milioni di elettori, con inevitabile contorno di derisioni e sfottò da parte della sinistra colta e disincantata, appare al confronto un esercizio di modestia.
Aspettiamoci nelle prossime settimane un crescendo di iniziative presidenziali, di viaggi all'estero e di interviste posate: anche questo è un modo per fare campagna elettorale. La gioiosa macchina da guerra di Bersani, però, porta in sé un germe distruttivo, quello stesso che causò la caduta di Prodi e contro il quale si era vaccinato Veltroni: la sinistra radicale (Vendola, ma anche Camusso e Landini) è parte integrante e decisiva dell'alleanza. È coi voti di Vendola e della Cgil che Bersani ha sbaragliato Renzi, ed è ai suoi grandi elettori che da oggi il premier in pectore dovrà rispondere. Il «profumo di sinistra» evocato da Vendola e ripreso da Bersani rischia di diventare un afrore insopportabile per gli elettori normali. Prodigo di metafore immaginifiche, il segretario del Pd dovrebbe riflettere sul vecchio adagio che suggerisce di vendere la pelle del lupo soltanto dopo averlo catturato.


di Fabrizio Rondolino

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