Politica

Se l'Italia è screditata dal caso Diaz ma non da un giornalis

Cassazione a due marce: denuncia il danno d'immagine degli scontri, però manda in prigione per reati d'opinione

 Se l'Italia è screditata dal caso Diaz ma non da un giornalis

Più analisti che giudici. Gli ermellini della Cassazione guardano lontano, oltre l'aula in cui sono stati giudicati i poliziotti della Diaz. E scrivono che le violenze degli agenti e gli arresti di massa dei no-global hanno «gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero». Una frase che, francamente, va oltre le responsabilità degli uomini delle forze dell'ordine, condannati a pene pesantissime e cacciati dal corpo, come documentano anche nell'omonimo libro, Diaz, l'inviato del Giornale Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo. La vicenda, controversa, del pestaggio dei giovani intrappolati in una scuola di Genova, si porta dietro da sempre polemiche accese. E molti avvocati, com'è normale in certe situazioni ma questa volta con una foga particolare, hanno denunciato un verdetto ritenuto inaccettabile. Nessuno però poteva immaginare che la Cassazione puntellasse le proprie scelte con quelle parole che chiamano in causa il mondo intero: il discredito gettato sull'Italia. Via il Codice Penale, avanti lo spread del nostro prestigio. I magistrati invadono un campo che non è il loro ma appartiene alla saggistica, forse alla politologia, al giornalismo, ad altre discipline. Curioso, la Cassazione è la stessa che giusto una settimana fa ha scritto una sentenza che porta un'altra volta l'Italia a fare il giro del mondo: il verdetto che riguarda l'ex direttore del Giornale Alessandro Sallusti, e ancora una volta l'opinione pubblica internazionale ha scoperto che l'Italia è un Paese ameno, pittoresco, curioso, in una parola inadeguato per gli standard di civiltà dell'Occidente.

Sallusti si è preso una condanna definitiva a 14 mesi di carcere e se non sarà varata in fretta una norma ad hoc, finirà in cella a scontare la pena. È normale che il direttore di un quotidiano fra i più letti del Paese finisca in carcere per un articolo che fra l'altro non ha scritto lui? In tutto l'Occidente non si ha notizia di reporter in galera per i loro pezzi e per le loro cronache e per i loro commenti. In Italia, invece, e complice una norma che è un frammento dell'ideologia fascista, le porte si spalancheranno nelle prossime settimane, passato il mese che la giustizia lascia per valutare il percorso da seguire. L'Italia, ed è sin troppo facile dirlo, sta in buona compagnia in questa poco edificante classifica e si trova insieme a Corea del Nord, Iran e Vietnam. Però non risulta che la Cassazione, che ha confezionato questo stupefacente verdetto, si sia preoccupata del figurone che la nostra credibilità stava rimediando sulla piazza mediatica internazionale. Questa volta i giudici non si sono posti il problema di quel che avrebbero detto e pensato gli americani, gli inglesi, i francesi. Non importa. I poliziotti valgono evidentemente un piccolo predicozzo, il destino di Sallusti si valuta come quello di un ladro o di uno scippatore, e non gli si dà la condizionale come a un bandito vero, senza porsi minimamente il tema dei contraccolpi di un verdetto così clamoroso. I giudici, a quanto pare, possono entrare e uscire dall'aula a seconda del tema e dell'imputato.

Naturalmente c'è chi obietta sostenendo che la diffamazione non è un reato di opinione, ma qualcosa di molto più grave. E però resta il fatto che la Corte europea di Strasburgo, quella che pesa il rispetto dei diritti umani, ha sentenziato contro la Grecia stabilendo il principio che chi scrive non va in galera. Perché l'Italia deve rimanere indietro?
In Italia si condannano i poliziotti, non quelli che avrebbero colpito i dimostranti ma gli altri. No, quelli che avrebbero coperto i «macellai» e nascosto le prove. Sottolineando l'indignazione del mondo intero.

Quello che ora si chiede il perché di una sentenza che proietta all'estero un'immagine sinistra del Belpaese.

Commenti