Politica

Che cosa lasciare in eredità ai figli (ma anche che cosa non lasciare)

Che i figli siano pezzi di cuore (non saprei scriverlo in napoletano) è certo. Non è affatto indiscutibile, invece, che – solo perché sono «sangue del tuo sangue» – vada proprio a loro tutto ciò che hai saputo creare e conquistare. A pensarla come me anche Bernardo Caprotti, il patron di Esselunga che ieri ha fatto i conti in tasca ai figli. Sacrosanto. Se io, al finire (...)

(...) dei miei giorni, potrò lasciare ai miei figli, amatissimi, soltanto una casetta e centomila euro; o due casette e un milione di euro, è certo che glieli lascerei volentieri e senza pensarci un secondo, fossero anche debosciati, scansafatiche, dissipatori e inetti: anzi, tanto più per questo motivo. E non tanto per mantenere i «beni» in famiglia, per onorare la stirpe e il cognome, ma per gratitudine della gioia che mi hanno dato con i sorrisi infantili, le braccine tese e i «Babbo, vieni!» detti con la certezza che sarei andato. Lasciare i miei beni materiali sarebbe dunque un atto d'amore al minimo sindacale dell'amore. Ma ragionerei, e ragionerò, in un modo diverso su altri lasciti: i miei libri, i miei documenti e gli autografi raccolti in tanti anni di studio, perché dovrei lasciarli a loro se non avranno alcun interesse per la storia del Novecento, o per le vicende di Italo Balbo, d'Annunzio, Bottai, Malaparte e di tutte le persone e cose di cui mi sono occupato? Perché li vendano in modo da cavarsi qualche sfizio o bisogno? No, credo che tutte quelle cose, per me preziose, saranno meglio destinate a una biblioteca, a una fondazione: a qualcuno o qualcosa cui siano veramente utili e che, tenendo in pregio il mio ricordo, faccia cosa grata anche a loro. Figurarsi dunque se si tratta di grandissimi patrimoni, o di immense opere – anche commerciali – che gli amatissimi eredi potrebbero dilapidare o sciupare. Meglio lasciare i discendenti in un agiato benessere, o in una opulenta ricchezza, senza che possano rovinare la tua creazione di una vita. Il caso più esemplare ed eclatante ch'io conosca è quello di Gabriele d'Annunzio, il quale fra gli anni Venti e Trenta si fece fare leggi ad personam (non sono invenzioni dei nostri tempi) per lasciare i tre figli, la figlia e la moglie a bocca quasi asciutta. Lui aveva creato, in 17 anni di lavoro, quell'incredibile monumento a se stesso e alla cultura del suo tempo che è il Vittoriale degli Italiani, costituito in fondazione e donato allo Stato italiano con il vincolo che niente fosse toccato dopo la sua morte: eredi di carne e ossa l'avrebbero toccato, eccome. Non solo; poiché le fondazioni hanno bisogno di denaro per vivere, d'Annunzio stabilì che il 90 per cento dei diritti sui suoi libri andasse proprio alla Fondazione del Vittoriale, e il restante dieci per cento agli eredi. I quali, peraltro, avevano più che a sufficienza per vivere senza ansie e sofferenze. Aveva ragione lui, il Vittoriale oggi è uno splendido patrimonio comune non solo degli italiani, ma dell'umanità intera, un intangibile lascito ai posteri tutti. Qualcosa di simile ha fatto un altro benefattore dell'umanità, il signor Ikea (non importa come si chiamasse davvero, è il signor Ikea), che donò a chi non ha gusto né denaro la possibilità di avere gusto con poco denaro. Per mantenere quel patrimonio creativo, oltre che commerciale, ha fatto in modo che i suoi figli - mica all'altezza di tanto, a suo parere – possano continuare a vivere in una ricchezza opulenta, ma senza la possibilità di interferire con l'azienda, altra carne della sua.
Viva anche Bernardo Caprotti dunque. Con l'unico rimpianto di non poter fare come lui.
@GBGuerri

segue a pagina 20

Villa a pagina 20

di Giordano Bruno Guerri

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