Economia

Così gli eccessi fiscali penalizzano l'Italia

Si rischia che in Italia rimangano le fabbriche, la parte "hard" del prodotto, anche per poterci scrivere made in Italy, mentre la parte soft (quella che dà il vero guadagno) se ne va assieme al lavoro di minor qualità

Il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi dichiara di essere terrorizzato da ciò che sta accadendo nella nostra economia reale e domanda al governo fatti concreti. Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco chiede che si tagli la spesa e si dedichino le risorse a ridurre le imposte sul lavoro e le imprese. In effetti ci sono brutti segnali, che indicano che il peso fiscale fa spostare le attività economiche all'estero. Fiat-Chrysler sta portando la sede legale in Olanda e quella fiscale a Londra e ciò implica che colà saranno ubicati brevetti e marchi da cui trae le royalty e parte della direzione, per evitare che si sostenga che si tratta di una sede fittizia e per poter fruire dei benefici della ridotta tassazione.

È stato smentito che il marchio del cavallino di Ferrari vada in Olanda, ma oramai gran parte delle nostre grandi imprese del settore della moda hanno la sede legale e fiscale in Lussemburgo, in Olanda, in Svizzera, in Irlanda, ove la tassazione è più bassa e non ci sono leggi penali fiscali indiziarie a carico degli azionisti di controllo, come quella che ha colpito Berlusconi o quelle a carico di Dolce&Gabbana. Così la parte creativa del made in Italy, la crema del valore che esso crea, se ne va dall'Italia. Spostare all'estero una fabbrica, in Polonia o in Romania, piuttosto per ridurre i costi del lavoro, può convenire. Ma presenta inconvenienti particolarmente rilevanti, quando si tratta di macchinari pesanti, siti in appositi capannoni. Gran parte di tutto ciò non si può spostare e quindi bisogna sostenere un costo per rifarlo. Inoltre si deve rinunciare a gran parte della manodopera specializzata e rifare da capo l'addestramento di quella di minor costo nella località dove ci si sposta. Così Elettrolux rinuncia allo spostamento in Polonia di interi stabilimenti, ma ridimensiona la loro occupazione mandando gli esuberi in cassa integrazione, a carico dell'Inps e quindi nostro. In questi casi occorrerebbe andare alla radice del problema che sta nella produttività, che in Italia - con i contratti di lavoro rigidi - è troppo bassa, specie perché gli impianti spesso non sono sfruttati di notte e nelle feste. Ma nel caso dei beni immateriali, creati dall'intelligenza, quelli che riguardano i marchi e i brevetti e il design, lo spostamento all'estero è facile, perché al personale più qualificato si offrono sedi piacevoli.

Mentre il nostro fisco, con le alte imposte sui beni immateriali, ci causa danni enormi perché così noi perdiamo sia i cervelli sia il guadagno che viene dalle imprese del made in Italy, mediante la qualità, la reputazione, il retaggio culturale. Si rischia che in Italia rimangano le fabbriche, la parte hard del prodotto, anche per poterci scrivere made in Italy, mentre la parte soft (quella che dà il vero guadagno) se ne va assieme al lavoro di minor qualità: quello che, in ogni caso, è corretto decentrare. Questo paradosso dipende dal modo sbagliato con cui è concepita la nostra struttura fiscale. L'Irap grava per due terzi e più sul costo del lavoro e quindi penalizza soprattutto le produzioni con elevata intensità di lavoro e con lavoro di alta qualità, cioè quello più esperto e intelligente. L'imposta sul reddito ha aliquote esasperatamente progressive. Arriva al 38% dopo i 28mila euro e al 41% dopo i 55mila mentre non vi sono benefici fiscali apprezzabili per i frutti delle opere dell'ingegno.

Così, con gli eccessi fiscali, ci facciamo male da soli.

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