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E nel caos Monti prova a sistemarsi

Mossa del premier per guidare il Senato, ma il Colle lo stoppa. E il Pd resta con il cerino in mano: ultima notte di trattative

E nel caos Monti prova a sistemarsi

Roma - I grillini, precisini, siedono ordinati e composti già da una mezz'oretta al centro dell'emiciclo, il presidente decano Emilio Colombo ha già superato la metà del suo discorso, quando Mario Monti fa il suo ingresso nella bomboniera di Palazzo Madama. S'aggira spaesato, il suo posto è occupato, finisce per accomodarsi accanto al piddino Latorre. Nessuno dei due sembra entusiasta, ma non sarà questa l'unica turbativa creata dal Professore.

Il senatore a vita premier è deciso a giocarsi la propria partita, costi quel che costi, e la circostanza appare definita quando poco più tardi la stretta di mano con Pier Ferdinando Casini sarà un gelido sfiorarsi e dirsi addio. Tal quale all'infelice matrimonio elettorale. Al Prof non dispiacerebbe ripartire dallo scranno più alto del Senato, strategica posizione per barattare una sospirata ascesa al Quirinale. Il Pd, che fino a quel momento aveva interpretato le avance di Scelta civica come tentativo di riacquistare ruolo, considerata l'incomunicabilità con i cinquestelle, comincia a preoccuparsi davvero. Scattano le contromosse della pattuglia che ora spinge compatta per Anna Finocchiaro alla terza votazione. Finché l'ambizione professorale, che sbuca in mille rivoli e in mille telefonate pressanti, non arriva all'orecchio di Napolitano. Brusco lo stop, e infastidito il moto d'ira: «Ma non si può! È contrario a logiche istituzionali e giuridiche... E il governo a chi lo lascia, alla Cancellieri? Ma chi la conosce, la Cancellieri all'estero?». Finirà chiamato a rapporto da Napolitano in serata, preferibilmente accompagnato da giustificazioni credibili.

Nel frattempo vanno a vuoto, come da previsioni, le prime votazioni di Senato e Camera. Scheda bianca trionferà per cinque volte (tre a Montecitorio e due alla Madama), mentre i grillini incuranti votano candidati di bandiera (Orellana e Fico), i socialisti i nomi di Englaro e di Schiavon, imprenditore suicidatosi in attesa dei rimborsi («Due storie significative», spiega Nencini), Scilipoti se stesso, la Mussolini coagula tre ammiratori e spuntano, a fine giornata, una manciata di voti senatoriali per Ignazio Marino, forse segnale di cambio di cavallo in corsa. Va in tensione il Pd che, come ammette Vannino Chiti, vede «naufragare l'idea di dialogare con i grillini» e con apprensione un'eventuale doppia presidenza: alla Camera, perché senza accordo si andrà su Franceschini, e al Senato, perché al ballottaggio non si potrà che eleggere la Finocchiaro. «Già, ma poi come lo spieghiamo agli elettori? E come faremmo a portare uno dei nostri anche al Quirinale?». Si convocano i gruppi per stamattina, ma già in nottata quello di Bersani è un telefono rovente. Cresce l'insofferenza tra le sue file, nonostante i deputati li abbia messi lui lì.

Si vuole a tutti i costi «slegare» il voto per le Camere da quello per un'eventuale maggioranza di governo. «I grillini non ci rispondono, sono inservibili», lamenta il Pd, che ci prova pure con i leghisti, prefigurando una strana maggioranza Pd-Scelta civica-Lega. È Calderoli a smorzare: «Sì, voteremmo la Finocchiaro, ma poi uno del Pdl alla Camera». Il Pdl siede sulla riva del fiume, gode in silenzio. Il futuro capogruppo Schifani riceve profferte amorose persino a pranzo: prima i montiani, poi Casini, che però pare volersi solo accertare che per Monti la strada sia ben chiusa. Come il vicolo in cui s'è ficcato il Pd, snobbato dai giovani cocciuti grillini e terrorizzato dal dover fare ancora i conti con Berlusconi. Bersani, scurissimo in volto, salta di riunione in conciliabolo: si vede pure con Casini ed Enrico Letta. «Non è un vertice, dovevo solo salutare un amico», dice Casini.

L'amico del giaguaro.

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