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Ecco la riforma del lavoro che ci farà uscire dalla crisi

Dieci anni fa la Germania cambiò il welfare con licenziamenti più facili e flessibilità. Bisogna eliminare la rigidità del sistema ma evitando i guasti della legge Fornero

Ecco la riforma del lavoro che ci farà uscire dalla crisi

Il prossimo fine settimana si vota in Germania. Vincerà Angela Merkel, e per l'Europa saranno guai. O forse no. Infatti, piuttosto che aver paura del nuovo ciclo della Cancelliera di ferro, forse sarebbe più opportuno adottare gli insegnamenti della Germania del passato, con intelligenza. Contrariamente a quanto è stato fatto, anche di recente, in Italia.

Seguendo questa chiave si può dire che il governo Letta mostra ancora idee confuse. Se il presidente del Consiglio Enrico Letta ha enfatizzato lo spirito di «pace sociale» con cui Confindustria e sindacati sono tornati a parlarsi, per il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni, il cosiddetto «Patto di Genova» mostra «un conto della spesa molto elevato e immediatamente posto a carico del bilancio statale con poco realismo». Posizioni in contrasto l'una con l'altra, che segnano la distanza non solo tra premier e ministro dell'Economia ma anche governo e parti sociali. Per non parlare di chi, data la scarsità di risorse, azzarda anche uno scambio riduzione del cuneo fiscale-aumento dell'Iva.

Come si farà quadrare il cerchio quando sappiamo bene che il non aumento dell'Iva dal 1° ottobre 2012 è fuori discussione? Confindustria e i sindacati non ipotizzano alcun tipo di copertura per un dossier che richiede dai 40 ai 50 miliardi. Ci spieghino: come mai hanno proposto solo incentivi e sgravi fiscali a carico dello Stato e non anche misure di vero stimolo all'economia, quali l'aumento dell'orario di lavoro, l'aumento della produttività, la riduzione delle festività retribuite e la riorganizzazione degli ammortizzatori sociali, sul modello delle riforme tedesche dei primi anni 2000? Se tengono veramente a cuore la crescita e l'occupazione in Italia, affrontare questi nodi è ormai indilazionabile.

La riforma del mercato del lavoro, con l'obiettivo di eliminare le rigidità strutturali che caratterizzano l'economia italiana può diventare una delle chiavi di volta per uscire dalla crisi. L'urgenza di tale riforma è ancora maggiore se si pensa che l'Italia non può più utilizzare la svalutazione competitiva che rendeva i prodotti più convenienti sui mercati esteri.

Il governo, pertanto, ha solo due leve alternative: abbassare la tassazione diretta, che rientra come componente nella formazione dei prezzi finali; oppure creare un sistema di norme che consentano la piena flessibilizzazione dei salari, in maniera che crescano ad un tasso moderato, senza creare pericolose spirali inflazionistiche, solo perché aumenta la produttività. È quanto è avvenuto in Germania nei primi anni 2000 con le riforme del mercato del lavoro e del welfare state promosse dal governo Schroeder e note a tutti come le «quattro riforme Hartz», dal nome del direttore risorse umane di Wolkswagen, che le ha ispirate. Ed è quanto si stava facendo in Italia con il governo Berlusconi nella legislatura cominciata nel 2008 e bruscamente interrotta nel 2011 in tema di riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva. Grazie a questi provvedimenti, durante la crisi il tasso di disoccupazione nel nostro paese è rimasto ragionevolmente basso. Al contrario di quanto avvenuto, come vedremo, con le controriforme del governo Monti nel 2012.

All'appello mancava un generico completamento della riforma delle pensioni di anzianità e di revisione delle norme che regolano il licenziamento dei dipendenti. Questi due punti sono stati oggetto dell'azione del governo Monti, i cui provvedimenti hanno prodotto più costi che benefici. Si pensi al problema degli esodati e all'aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, nel 2012, con effetto trascinamento anche nel 2013. I provvedimenti del ministro tecnico Fornero hanno allontanato il nostro paese dal mainstream europeo e neanche i blandi decreti dei primi 4 mesi di attività del ministro tecnico Giovannini sono riusciti a porre rimedio.

Eppure la soluzione per uscire dall'avvitamento l'abbiamo vista: tra il 2002 e il 2005, le già citate «riforme Hartz» hanno riguardato 4 tematiche principali: introduzione di nuove forme di contratti di lavoro (mini jobs e midi jobs); previsione di incentivi per iniziare un'attività in proprio (programma Ich-AG); incentivazione del lavoro flessibile e semplificazione del licenziamento; riforma del collocamento; revisione dei sussidi di disoccupazione. Esse scatenarono un'ondata di proteste nella base progressista del Spd, con la ribellione guidata dai sindacati. Il cancelliere Schroeder crollò subito nei sondaggi, perché aveva tradito la promessa elettorale di stimolare l'economia senza interventi di riduzione sul welfare state. L'opposizione conservatrice, guidata da Angela Merkel, incalzò l'esecutivo sottolineando come le riforme previste fossero comunque troppo timide.

Il primo impatto delle 4 riforme Hartz fu fallimentare: i costi dei sussidi di disoccupazione aumentarono vertiginosamente, aumentò a più di 5 milioni il numero dei disoccupati. Il 2003 si chiuse in recessione, e nel 2004 e nel 2005 aumentò il rapporto deficit/Pil. La Germania, insieme alla Francia, sforò il Patto di Stabilità, che prevedeva sanzioni per gli Paesi dell'eurozona che non rispettavano la regola del deficit massimo al 3% (ma Gerhard Schroeder sosteneva che gli obiettivi di bilancio «non dovessero essere interpretati in modo statico»). In seguito, la Germania si riprese e si parlò di un «nuovo miracolo del lavoro» tedesco. Oggi lavorano 42 milioni di persone (record assoluto), e fra il 2005 e oggi la disoccupazione in Germania è scesa del 6% e il reddito medio delle famiglie tedesche è salito di 10 punti. La Germania cresce stabilmente più dell'Eurozona dal 2006, con la sola eccezione del 2008, quando la crisi finanziaria ha colpito in modo severo il sistema finanziario tedesco (sappiamo anche perché).

Ebbene, il governo italiano dovrebbe avviare una seria riflessione sul modello tedesco, con le sue luci e le sue ombre, e intraprendere un ciclo di riforme che sia finalmente strutturale e non guidato solo da condizionamenti sindacali. Ma la differenza fra Italia e Germania è proprio qui: cosa sarebbe successo nel nostro paese se a progettare il pacchetto delle riforme del mercato del lavoro fosse stato il direttore del personale della Fiat?

E ancora, avevamo proprio bisogno della stabilizzazione dei precari nella Pubblica amministrazione come segnale forte di riformismo? Se la Spagna ha azzerato il suo differenziale sui titoli decennali rispetto all'Italia uscendo dalla recessione, mentre noi ne siamo dentro ancora fino al collo, non sarà perché la Spagna ha finalmente riformato il suo mercato del lavoro in chiave tedesca e noi no? Ecco, questo è il riformismo di cui ha bisogno il nostro paese, su cui la nostra grande coalizione dovrebbe misurarsi.

Altro che dilaniarsi per la decadenza del senatore Berlusconi.

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