Cronache

La fabbrica lager era già stata multata

Più di un blitz da parte della Finanza. Ma il magazzino non è mai stato chiuso. Un caso fotocopia finì in tv

La fabbrica lager era già stata multata

Tutti sapevano degli «schiavi» cinesi e dei loro «padroni». Ma quel capannone - come la maggior parte degli altri che sorgono nella stessa zona - godeva di una sorta di regime di extraterritorialità che lo affrancava dal rispetto delle leggi e, peggio, anche dal rispetto della pietà.

I laboratori tessili si dipanano lungo un beffardo «giro d'Italia» che va da «via Val d'Aosta» a «via Basilicata»: qui, nella zona industriale di Prato, la toponomastica dal sapore interregionale fa da schermo a un'enclave di illegalità straniera. Tollerata e, per bassi interessi di bottega, perfino assecondata. Salvo poi stracciarsi le vesti quando ci scappa un morto, figuriamoci 7 come in questa tragedia. Un incendio misterioso in un magazzino conosciuto dalle Fiamme Gialle che lo avevano visitato (e multato) più volte. Conosciuto dall'Unione industriali di Prato che i suoi affiliati cinesi li coccola non poco. Conosciuto alle grandi griffe della moda che qui comprano a poco per poi vendere a tanto nei loro show room. Conosciuto ai sindacati, disinteressati al fenomeno, perché si sa che i lavoratori cinesi la tessera sindacale non ce l'hanno. Conosciuto ai consumatori che - negli orari di apertura al pubblico - acquistano borse e abbigliamento risparmiando enormemente. E conosciuto perfino dai mezzi di informazione, visto che in un capannone dell'orrore il 12 febbraio 2012 entrò una troupe del programma «Sirene» su Rai3 (il video è disponibile sul web), documentando una brutta storia di sfruttamento con bambini che dormivano tra cavi elettrici ed escrementi di topi. Il blitz della Finanza aveva portato alla chiusura della società «TM» nell'ambito di un'inchiesta sul riciclaggio di danaro sporco attraverso una rete di money transfer: guarda caso la stessa ipotesi di reato (oltre a quella di omicidio colposo plurimo) che potrebbe pendere sul capo dei quattro cittadini cinesi - la proprietaria del magazzino e i tre gestori - finiti ieri sul registro degli indagati per il rogo del primo dicembre nella rinata ditta «Teresa Moda».

Ma in questa vicenda non mancano i paradossi. Se infatti sul web si digitano le parole «Teresa Moda-Prato» viene fuori una pagina internet elegantissima che precisa quanto segue: «Teresa Moda è un ingrosso che da sempre si è distinto per la professionalità e le competenze dimostrate nel settore dell'abbigliamento. Ci rivolgiamo ad una clientela alla moda, sempre alla ricerca delle ultime tendenze e novità che caratterizzano il mondo del fashion. Grazie al nostro personale costantemente aggiornato possiamo offrire ai nostri clienti un prodotto di qualità e soprattutto dallo stile molto attuale...». Si tratta di un caso di omonimia o c'è qualcuno che racconta una realtà virtuale ben diversa da quella reale?

La politica, come sempre, cerca di lavarsene le mani. Sentite cosa dice il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini: «Nel biennio 2012-2013 dal gruppo interforze sono stati effettuati nel territorio di Prato in totale 1.571 controlli». Ma se questi sono i risultati, vuol dire che o sono stati controlli di facciata oppure c'è qualcosa nei meccanismi di legge che va modificato immediatamente. «La verità - sintetizza con efficacia un imprenditore di Prato attivo nel distretto tessile - è che il nostro Stato lascia liberi i cinesi di operare con modalità che, al contrario, porterebbero noi italiani direttamente in carcere». Ma da questo orecchio il ministro Giovannini non ci sente: «L'anno scorso sono state effettuate 996 ispezioni, il 50% delle quali hanno coinvolto aziende gestite da cittadini di nazionalità cinese. Mentre nel corrente anno sono state finora eseguite 780 ispezioni. E anche in questo caso oltre il 50% hanno riguardato aziende cinesi».


Risultato: sette «prigionieri» cinesi morti in una fabbrica galera di cui dovremmo tutti vergognarci.

Commenti