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Franceschini, l'eterno secondo vittima dei leader in disarmo

Veltroni l'ha deluso, Bersani gli ha negato la presidenza della Camera: l'ex braccio destro di Marini ha collezionato amarezze. Ma a furia di batoste ormai ha imparato a galleggiare

Franceschini, l'eterno secondo vittima dei leader in disarmo

L'ultimo sergozzone, quello degli sms in favore dell'affascinante Michela Di Biase, è stato il più imbarazzante perché la relazione tra di due è stata improvvisamente messa a nudo. Ha fatto anche un po' pena che un gesto affettuoso e privato - chiedere via cellulare agli amici di votare la sua bella, candidata Pd alle comunali romane - sia stato stravolto e sbeffeggiato dal sottobosco grillino. La batosta, in sé, è relativa: il segreto sarebbe fatalmente venuto alla luce, anche se c'è modo e modo. Però, si è sommata alla teppistica chiassata dei soliti grillini davanti al ristorante in cui Franceschini stava mangiando e, soprattutto, allo smacco che ha avuto non diventando presidente della Camera.

Il povero Dario ci contava da tempo. Pier Luigi Bersani, in cambio della pace interna, glielo aveva promesso. Così, quando nelle elezioni di febbraio, sia pure di un soffio, la sinistra ha prevalso, Franceschini ha cominciato a entrare nella parte. Si è riletto tutti i discorsi di insediamento dei predecessori al supremo seggio di Montecitorio, ne aveva tratto spunti e aveva abbozzato il proprio intervento improntandolo alla massima nobiltà. Avrebbe dovuto farsi perdonare dal centrodestra le cadute di stile del passato con i continui attacchi al Cavaliere Berlusconi, apostrofato come «ominicchio», «l'uomo che scredita l'Italia», «è in stato confusionale», «è l'Antonio La Trippa del film di Totò», ecc. Nell'orazione immaginata aveva trasfuso tutta la sua sapienza di scrittore di romanzi (il più noto, Nelle vene quell'acqua d'argento, del 2007, è stato premiato in Italia e in Francia) e a ogni rigo traspariva l'intenzione di riscattare le miserie del predecessore, Gianfranco Fini, e ispirare la propria presidenza alla più perfetta imparzialità. Il sogno, com'è noto, si infranse per il fallimento di Bersani che, mendicando l'appoggio dei grillini al suo sperato premierato, sacrificò il volto noto e stantio di Franceschini, per la faccia nuova e fresca (salvo ritocchino?) di Laura Boldrini. Va dato atto a Dario che reagì con soavità a una delusione cocente. Già il giorno successivo salutava con ostentato umorismo: «Piacere, sono Dario Franceschini, l'ex presidente della Camera».

A ripescarlo, è stato Enrico Letta che lo ha nominato ministro del suo governo per i Rapporti con il Parlamento. Apparentemente un dicastero di serie B, in realtà molto di più. L'incarico, al nocciolo, è imbrigliare il Pd, i cui umori anarcoidi sono un pericolo per il governo. Di fatto, una supplenza di Roberto Speranza, l'imberbe e smarrito capogruppo - ennesimo frutto del cupio dissolvi di Bersani - inadeguato a guidare l'irrequieta masnada dei deputati piddini. Franceschini è deciso a farcela, anche per non sfigurare con Letta. Tra loro, corre un parallelismo.

Tutti e due, per ragioni anagrafiche, terze file della defunta Dc hanno percorso tratti di strada insieme ma Letta, nonostante sia più giovane (46 anni, contro i 54 dell'altro), quasi sempre un passo avanti. Sono stati entrambi vicesegretari del Ppi (l'erede della Dc, seppellita da Tangentopoli) quando, a metà degli anni '90, lo guidava Franco Marini. Poi, col secondo governo Amato (2000-2001), Letta fu ministro dell'Industria e il Nostro sottosegretario alla presidenza. Oggi il giovane è premier, l'altro ministro senza portafoglio. La diversità essenziale tra loro è che Letta, si direbbe per decreto divino, è stato sempre tra i primi della classe anche se non ricopriva particolari ruoli; Franceschini, invece, dovendo barcamenarsi, ha sviluppato uno spirito di sopravvivenza confinante con le ineleganze del carrierismo.

Dario ha sempre galleggiato appollaiandosi sulla spalla del leader di turno. Dopo Franco Marini, cui abbiamo accennato, venne in auge Romano Prodi. Franceschini ne divenne all'istante il reggicoda, fedele in questo al suo debole per i dc di sinistra emiliani, come l'idolo giovanile, Benigno Zaccagnini, il cui ritratto ha sempre con sé. Quando Prodi fu scalzato da Max D'Alema, Franceschini traslocò all'istante col nuovo venuto diventando sottosegretario del suo governo (1998). Sorto l'astro di Walter Veltroni, fondatore nel 2007 del Pd, Dario gli saltò sulle ginocchia e si autoproclamò suo giannizzero in rappresentanza degli ex dc del nuovo partito. La fedeltà alla causa gli procurò per otto mesi nel 2009 la gloria di segretario provvisorio del Pd. Al gong, fu sostituito da Bersani che, nel confronto diretto delle primarie, prese il doppio dei suoi voti. Segno che era stato semplicemente sopportato dalla maggioranza ex comunista del Pd. Con Pier Luigi, com'è nel suo stile prono, è andato d'accordo ma appena ha visto all'orizzonte l'uomo forte - nelle fattezze di Mario Monti- si è subito schierato con lui e contro le elezioni anticipate che avrebbero spalancato a Bersani Palazzo Chigi. Di fatto, uno sgambetto. Oggi, che da ministro deve la carica anche al centrodestra che appoggia il governo, ha perfino smesso di prendersela col Cav che per lustri gli era apparso il nemico da abbattere, il mostro da sventrare, l'emblema del peccato e della vergogna nazionale. Questo opportunismo carrierista non esaurisce però la complessità del nostro personaggio.

Avrete notato che da due anni, Dario inalbera una barba nera da pope che stride col volto glabro e gentile cui ci aveva abituati da lustri. Coincide con la separazione dalla moglie e il fidanzamento con Michela Di Biase. È - ipotizzo - una barba penitenziale, espressione del senso di colpa che, nonostante la felicità del nuovo amore, un credente come Franceschini non può non provare. A Ferrara, città natale di Dario, la sua era considerata una famiglia modello. Ogni domenica a messa insieme, lui, la moglie e le due figlie. La consorte, Silvia Bombardi, era la più bella ragazza della scuola e il loro fidanzamento risaliva ai tempi del liceo. Già insieme, quando Dario faceva i primi passi nella Dc, fedelissimo di Ciriaco De Mita alle cui riunioni in Irpinia correva per tornare subito a Ferrara e riabbracciare la sua Silvia. Con lei al fianco debuttò nel grosso studio legale di Via Bersaglieri del Po, con i mega clienti della nomenclatura comunista locale, dalle coop rosse, all'Unipol. Un idillio durato un terzo di secolo, interrotto dalla folgorante Michela, trentaduenne dai capelli neri e gli occhi azzurri, laureata in Storia dell'Arte, romanissima e politicamente impegnata.

Così, anche chi moraleggiava sugli sfarfalleggiamenti del Cav con l'irridente: «Fareste educare i vostri figli da uno così?», è stato travolto dalle alterne vicende delle umane sorti. Gli servirà di lezione?

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