Cronache

"Giù la testa, attentatori: ho il modo per scovarvi"

Dopo aver usato 100 tonnellate di esplosivo in oltre 700 demolizioni escogita per la Ue un sensore che individua chi trasporta una bomba

Dategli 100 chili di esplosivo e vi solleverà un palazzo di qualsiasi dimensione, nel senso che lo farà saltare in aria. Dategliene 1.500 - è già capitato - e scatenerà il finimondo. In 30 anni di onorata carriera, ha usato di tutto: dinamite («la più sincera, la più efficace»), tritolo («il più adatto per scopi militari»), plastico C4 («indispensabile per cariche speciali»), pentrite («per lavori di fino»). In totale 100 tonnellate di materiale esplosivo e 700 demolizioni: ecomostri, case, alberghi, fabbriche, ciminiere, campanili, acquedotti, ponti, silos. Ma i suoi botti controllati hanno anche aperto gallerie, scavato trincee per gasdotti, messo in sicurezza montagne che franavano, riattivato pozzi termali, persino circoscritto incendi, tanto da meritargli un'onorificenza dell'Università di Nanchino. E pensare che furono proprio i cinesi, nell'ottavo secolo, a inventare i fuochi d'artificio.

Ecco, per niente pirotecnico, invece, Danilo Coppe, 50 anni ad agosto, milanese trapiantato in Emilia dall'età di 7, benché si sia scelto una professione pressoché unica in Italia: esplosivista. Anzi, glaciale e raziocinante, non foss'altro perché glielo impone il ruolo di consulente dei carabinieri del Ris di Parma e del Gis di Livorno, dei Nocs della polizia, dell'esercito, delle questure, delle Procure. Ha fatto suo il dogma dell'irlandese Sean Mallory, quello dell'efficace motto «Giù la testa, coglione» nel film di Sergio Leone: «Quando ho cominciato a usare la dinamite, allora credevo anch'io in tante cose, in tutte, e ho finito per credere solo nella dinamite». Da qui discende un forte convincimento: «Non esiste problema che non si possa risolvere con un'adeguata carica esplosiva».

Mister Dinamite s'è avvicinato al suo mestiere con lo stesso ardore che vede il chierico prepararsi al sacerdozio in seminario: istituto minerario ad Agordo, nel Bellunese («l'unico che insegna a usare i detonanti, 9 ore di corriera da casa mia, tornavo in famiglia solo per Natale e Pasqua»), poi diploma universitario in geotecnica a Padova, infine scienze politiche con indirizzo criminologico all'ateneo di Bologna, «perché m'interpellavano sempre per identificare le bombe e mai il profilo psicologico di che le collocava». Le occasioni per mettere a frutto la laurea non gli sono mancate: dalla strage di piazza della Loggia a Brescia a quella di via D'Amelio a Palermo, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, fino ai 13 candelotti di dinamite («che poi era gamsite») sepolti in giardino da Massimo Ciancimino, sono ormai più di 150 i casi giudiziari che ha passato al setaccio. E molti altri, dall'ordigno che dilaniò l'editore Giangiacomo Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate agli attentati di Unabomber, li ha esaminati nella cinquantina di pubblicazioni scientifiche a sua firma.

Vocazione precoce, questo Coppe. «A 8 anni grattavo dai muri della cantina la muffa, che è salnitro, cioè nitrato di potassio, uno dei tre componenti della polvere nera, meglio che non dica gli altri due. Poi andavo a testare i miei pastrocchi nei campi, dove non potevo far danni. Da chi ho imparato che esistono i componenti reattivi, tipo comburente e combustibile? Dal Piccolo chimico, un gioco prodotto dalla Pan Ludo di Busto Arsizio». Dopodiché, alla stessa età, la folgorazione: «Al cinema ho visto Uomini d'amianto contro l'inferno, con John Wayne nei panni di Chance Buckman, un texano dai capelli rossicci che con la dinamite spegne gli incendi nei pozzi petroliferi. Ed è stata fatta».

Fin da allora si è dato da solo i «dieci comandamenti del bombarolo» per uscirne vivo. Primo: non uccidere. Secondo: non ucciderti. Terzo: non fare danni. In osservanza del decimo (non essere geloso della tua arte), Coppe ha messo in piedi a Parma l'Ire (Istituto ricerche esplosivistiche), che è un museo ma anche un'accademia di formazione. Spesso lo chiamano all'estero. In Marocco, dove il governo è stato costretto a emettere un decreto legge ad personam per consentire all'infedele di maneggiare esplosivi sul suolo islamico, ha polverizzato una parete rocciosa che minacciava di abbattersi dentro l'invaso di una diga a Chefchaouen, evitando così un disastro simile a quello del Vajont. Idem a Tangeri. Presto è atteso nell'Oman. «La vuole una notizia bomba?».
Detto da lei, promette bene.

«Sto elaborando per conto dell'Unione europea un sistema antiterrorismo che consentirà, attraverso una rete di sensori installati nelle città, di scoprire auto o persone che trasportano bombe».

È il suo modo per espiare, sulle orme di Alfred Nobel?

«Quella del chimico svedese che crea un premio per lavarsi la coscienza è una delle bufale più ridicole circolanti nel mondo. Nobel brevettò la dinamite nel 1867, dopo aver trovato il modo per stabilizzare e solidificare la nitroglicerina inventata vent'anni prima dal piemontese Ascanio Sobrero, la quale aveva il grosso difetto di esplodere alla velocità di circa 8.000 metri al secondo al minimo urto o sbalzo di temperatura. In seguito s'invaghì follemente della prosperosa Bertha von Suttner, pacifista austriaca, autrice del pamphlet Giù le armi. Nobel era tanto geniale quanto piccolo, brutto, malaticcio e frequentava con assiduità i bordelli, non potendo procurarsi in altro modo compagnia femminile. Finì per mangiare sulle mani di Bertha, un armadio a due ante che divenne la sua segretaria. Fu lei a convincerlo a costruire una villa a Sanremo per curarsi dalla tisi e a fondare il premio, staccando un assegno che tutt'oggi frutta 30 milioni di euro d'interessi annui senza che venga intaccato il capitale. E a chi andò il Nobel per la pace nel 1905? A Bertha».

Comunque lei s'è specializzato nell'uso della dinamite a fin di bene.

«Può dirlo. Ho tirato giù la seconda e la terza delle Vele di Secondigliano, dopo che un mio collega aveva fallito sulla prima, lasciando di sale il sindaco Antonio Bassolino, presente sul posto per fare passerella. La guerra degli scissionisti mi ha impedito di continuare: le autorità locali non sono in grado di garantirmi la sicurezza».

Pure l'abbattimento di Punta Perotti sul lungomare di Bari è opera sua.

«Lì avevano truccato l'appalto, con un ribasso del 55% che poi sarebbe stato recuperato grazie alle varianti in corso d'opera. Alla fine hanno convocato me. Adesso si chiama Parco della legalità. Non le dico che cosa c'è sotto».

Stessa «cura» per i casermoni del Villaggio Coppola.

«Otto grattacieli sul litorale domizio. Avevo la loro stessa età, 40 anni. Ma ero più bello io: immagini 200.000 metri cubi di cemento in riva al mare. Era stato persino deviato il corso del Volturno per aumentare la spiaggia con i depositi alluvionali».

Altri sbriciolamenti celebri?

«I vecchi stabilimenti Ilva e Ansaldo di Genova. L'ex Michelin a Torino. L'hotel Savoia Excelsior di Rimini, con migliaia di spettatori a fare il tifo sulla spiaggia, pareva la finale dei Mondiali di calcio».

Le è mancato il Fuenti, hotel edificato sulla Costiera Amalfitana e mai inaugurato, «un monumento all'indecenza ambientale», secondo il Corriere della Sera.

«Si sono inventati una balla colossale per giustificare i costi decuplicati a causa della decisione di non utilizzare l'esplosivo. Dicevano che avrei destabilizzato l'intero versante montuoso».

Che altro vorrebbe avere nel suo palmarès?

«Le dighe di Begato a Genova. Palazzi costruiti nel bel mezzo di una valle naturale, che hanno cambiato il clima della località, perché impediscono ai venti marittimi di arrivarci. E poi il Corviale di Roma. Un chilometro di bruttezza. Nei corridoi i residenti girano col motorino. Immagini che bel domino sarebbe buttarlo giù. Mi accontenterei solo delle spese vive, guardi».

Perché le fanno demolire la Punta Perotti ma non il grattacielo di 13 piani sull'Adriatico a Civitanova Marche?

«Me lo domando anch'io. Non sarà che dentro ci sono 30-40 appartamenti venduti a cifre mostruose e quindi bisognerebbe mettere in conto 30-40 cause civili?».

Non si farebbe prima a demolire le case degli amministratori pubblici che autorizzano simili obbrobri?

«Non ha idea di quante richieste mi arrivano, con tono scherzoso, perché faccia come Guy Fawks, il rivoluzionario inglese che ha prestato il viso al personaggio di V per vendetta e alla maschera degli hacker di Anonymous. Con 36 barili di polvere da sparo nascosti nelle cantine della Camera dei lord, nel 1605 voleva far piazza pulita del parlamento inglese e di re Giacomo I d'Inghilterra».

Fu il primo esplosivista della storia?

«No. Il primo fu Hernán Cortés, il condottiero spagnolo che nel Cinquecento, su ordine del Papa, rase al suolo con la polvere nera le piramidi su cui gli Aztechi compivano sacrifici umani».

Ma non c'è nessuno che vigili sulle licenze edilizie rilasciate dai Comuni?

«Paese che vai, boss che trovi. Tutto è stato decentralizzato. Ci vorrebbe un ministero alla Pubblica decenza. Siamo una strana nazione. Si ricorda il crollo di via Pagano a Palermo nel 1999? Il palazzo accanto s'era inclinato di mezzo metro. Beh, l'hanno raddrizzato con i pistoni idraulici. Lei ci porterebbe a vivere la sua famiglia?».

È mai stato minacciato?

«Sì. Quando nel 1994 a Domusnovas, in Sardegna, testai con successo un sistema per spegnere i roghi boschivi che ha il difetto di costare troppo poco, ricevetti una telefonata: “Pensa agli incendi di casa tua”. Con esplosivi speciali autoraffreddanti, tre persone riuscirebbero a circoscrivere le fiamme in 10 minuti svolgendo il lavoro di 300 soccorritori».

Ma allora perché questo metodo non viene applicato?

«Vige una normativa del 1931, anzi un regio decreto, il cosiddetto Tulps, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che sembra scritto dai Fratelli Marx. Si occupa di tutto: armi, esplosivi, mercatini, cinema, balere. Un monolite intoccabile. Nel tempo che occorre per completare l'iter burocratico, s'è già bruciato tutto».

Mai rischiato di morire sul lavoro?

«Un sacco di volte, soprattutto nelle attività di disgaggio, cioè di rimozione di rocce pericolanti. Sei appeso in parete con i massi in caduta che ti sfiorano».

L'udito come va?

«Bene. Non uso le cuffie. È bello sentire il botto e l'onda di sovrappressione, che la gente chiama spostamento d'aria».

Consiglierebbe la sua professione a un figlio?

«Se fosse maschio, sì. Per fortuna ho una femmina di 15 anni. È un mestiere sporco, polveroso, fangoso. Per svolgerlo m'è toccato diventare rocciatore, speleologo, sommozzatore».

Guadagna bene, almeno?

«Vado a estro, in base alla simpatia o all'antipatia che l'edificio da demolire mi suscita. Per una vecchia ciminiera 5.000 euro possono bastare».

A sicurezza come siamo messi?

«Lo vede questo gadget?». (Mi mostra una specie di proiettile appeso al mazzo delle chiavi di casa). «È un detonatore. Sarò salito su 500 aerei e nessuno se n'è accorto. Gli addetti ai controlli non sanno che cosa cercare. Per anni ho tenuto sul cruscotto dell'auto alcuni candelotti di dinamite, tipo quelli di Wile Coyote, ha presente? I vigili urbani me li coprivano con la multa per divieto di sosta infilata nel tergicristallo e tiravano dritto».

Quindi è impossibile impedire attentati come quello di Boston, dove due fratelli hanno superato i controlli con una pentola trasformata in strumento di morte.

«Il sensore che ho studiato per conto della Ue contro le autobombe funziona anche sulle persone. Applicato sui varchi di accesso a una manifestazione, può individuare chi trasporta i cinque tipi più diffusi di esplosivo».

Se mi applico, quante probabilità ho di riuscire a confezionarmi da solo un ordigno?

«Un 90%. Le bastano certe nozioni che trova su Internet e alcune sostanze solide o liquide che ha già in casa».

Dove piazzerebbe l'ultima carica di dinamite che le resta?

«Sotto le “lavatrici” di Pra', il sobborgo di pescatori alle porte di Genova deturpato da un falansterio di cemento con finestroni a forma di oblò».

In Italia tutti demoliscono. Ma poi chi ricostruisce?

«Questa sindrome si è sviluppata con la morte della meritocrazia. Non trovi più una persona giusta al posto giusto. D'altronde da una classe dirigente che è figlia del '68, con il 6 politico alle superiori e il 18 politico all'università, che cosa vuole aspettarsi?».

(658. Continua)

stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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