Politica

GIUSTIZIA E POLITICA

Il tracollo di un pezzo della società italiana e di un pilastro del potere democristiano: la Fedeconsorzi. È un disastro in bilico fra cronaca e storia. Il presidente del Tribunale fallimentare di Roma, Ivo Greco, cerca di limitare i danni. È il 1993 e Greco ha il torto di studiare una strada innovativa per vendere i beni rimasti e per restituire quanto più possibile ai creditori. Crea una società ad hoc, la Sgr, partecipata da tutti i creditori, che acquista in blocco il «portafoglio» Federconsorzi. Una mossa che insospettisce la magistratura di Perugia e mette in moto un’inchiesta lunghissima, dolorosa e costosissima. Oggi a distanza di tanti anni è possibile tentare un bilancio di quella disastrosa operazione di chirurgia giudiziaria.
Quell’indagine, conclusa con un buco nell’acqua, è costata al contribuente qualcosa come 150 milioni di euro. Una cifra stratosferica, ma questo è il prezzo pagato ai sospetti, ai processi, al congelamento decennale della Sgr con tutti i suoi cespiti. Giovanni Panebianco nel libro Processo a un’idea, con prefazione di Mario Almerighi, ricostruisce dettagliatamente tabella per tabella queste spese di cui, naturalmente, nessuno verrà chiamato a rispondere.
Greco, assistito dal professor Pellegrino Capaldo, banchiere ed economista, ha fatto solo il suo dovere, ma a Perugia non l’hanno capito. E anzi sono stati messi fuoristrada da una squadra di periti. Gli esperti del tribunale di Perugia hanno confuso la stima con il prezzo: la stima di quei beni, teorica, con la cifra spuntata al momento della vendita. Certo, per il commissario giudiziale i beni Federconsorzi valgono circa 4mila miliardi, ma alla fine sono stati ceduti alla Sgr per 2150 miliardi. Quasi duemila in meno. Troppo poco? No, purtroppo quel che è successo è quel che accade normalmente: se devi vendere e sei in posizione di debolezza, se devi comunque far cassa, si sa, devi accettare le condizioni poste da chi compra. Anzi, la costituzione della Sgr è servita per limitare i danni.
Ma per Perugia, le cose non stanno così. Greco e Capaldo avrebbero diretto dalla loro cabina di regia una svendita del glorioso patrimonio Federconsorzi. Al termine di un’inchiesta e di un processo lunghissimi, Greco e Capaldo vengono condannati per bancarotta fraudolenta a 4 anni di carcere. Greco, un magistrato dalla lunga e specchiata carriera, se n’è andato in pensione con tutta la sofferenza per questa situazione.
Non c’è stata nessuna bancarotta, l’errore è clamoroso, semmai si è percorsa una strada diversa e originale per chiudere il contenzioso. Il processo è frutto di un errore e la condanna è la cornice su questo scempio. Sarebbe anche facile rispondere inoltrandosi nel retrobottega della dietrologia nostrana: Greco, prima di essere azzoppato e disarcionato da questa indagine, era non solo il numero uno del Tribunale fallimentare della capitale ma anche il presidente del Tribunale dei ministri di Roma in piena tempesta Mani pulite. Dava fastidio a qualcuno? O, più banalmente, c’è chi ha cercato di piazzare un amico al posto suo su quella poltrona così strategica? Domande legittime che però l’interessato lascia rimbalzare. È un magistrato all’antica, non dà interviste, non ama i riflettori. Aspetta giustizia e la giustizia bussa prima in appello, poi con forza in Cassazione. Le condanne diventano assoluzioni, assoluzioni sempre più nette e limpide. L’impianto dell’indagine di Perugia viene raso al suolo, fino al verdetto finale del 2006. L’equivoco, sempre che lo si possa definire così, viene chiarito.
Greco è ormai un pensionato che ha varcato la soglia degli ottant’anni, inseguito come un incubo, lui che era sempre il più bravo e il più preparato, dall’etichetta di bancarottiere. E la Sgr, dopo un decennio di letargo, può concludere la vendita dei suoi beni. Il conto, come sempre lo pagheranno gli italiani. Centocinquanta milioni di euro, a cominciare dalle spese di custodia giudiziale.

Soldi che potevano e dovevano essere risparmiati.

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