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Guerra alla procura di Milano Bruti nei guai per il caso Ruby

Il Csm chiede il procedimento disciplinare per il procuratore capo, gli atti su Sea in Cassazione. Il processo affidato alla Boccassini? "Ha esposto l'ufficio a sospetti" 

Guerra alla procura di Milano Bruti nei guai per il caso Ruby

Non è mai accaduto a memoria d'uomo che il Procuratore della Repubblica di Milano finisse sotto procedimento disciplinare. A rompere l'incanto rischia di essere Edmondo Bruti Liberati, da quattro anni capo della procura milanese, e che potrebbe pagare salata la sua gestione dei fascicoli d'inchiesta più delicati di questi anni. Dopo tre mesi di polemiche, veleni, tentativi di insabbiamento più o meno maldestri, ieri dal Consiglio superiore della magistratura arriva una decisione inequivocabile: la Settima commissione del Csm, quella che si occupa del regolare funzionamento degli uffici, candida Bruti Liberati al procedimento disciplinare. È una decisione ancora in divenire, perché le farraginose procedure della giustizia interna alla magistratura prevedono lunghi e lenti passaggi prima che si arrivi al dunque. Ma la sostanza è che si è ormai creata all'interno del Csm una maggioranza che ritiene inaccettabili alcuni dei comportamenti di Bruti Liberati venuti alla luce nel corso di queste settimane.
Uno il tema su cui Bruti rischia di più: la commissione indica al plenum del Csm, che si terrà il 18 o 19 giugno, la necessità di scavare sulla gestione del fascicolo Sea, l'indagine che sfiorava il Comune di Milano e che il procuratore si dimenticò in cassaforte nei due mesi cruciali, quelli in cui l'asta bandita dalla giunta di Giuliano Pisapia veniva truccata (all'insaputa del sindaco), e anche per questo non si è mai saputo se e quali talpe ci fossero in Comune. Al plenum, la commissione chiede di trasmettere gli atti su Sea al procuratore generale della Cassazione e al ministro della giustizia, gli unici che possono formalmente far partire il procedimento disciplinare contro Bruti: i quali peraltro hanno già tutto in mano e finora non hanno dato segno di vita, ma difficilmente potrebbero restare indifferenti se il Csm li investisse della questione. Unica consolazione per il procuratore: la stessa cosa viene proposta anche a carico di Alfredo Robledo, il procuratore aggiunto che con il suo esposto del 17 marzo scorso ha scatenato questo putiferio: Robledo avrebbe - nella foga di denunciare gli scippi di cui si considerava vittima - reso nota prima del tempo la retata che si preparava per gli appalti Expo. Entrambi i contendenti, insomma, potrebbero alla fine uscire malconci dallo scontro.
Rivalità personali, ruggini vecchie e nuove, scontri di potere tra singoli giudici e correnti: gli ingredienti di questo pasticcio sono tanti, e tutti di difficile digestione. Orfana del collante che l'aveva tenuta insieme per anni, la battaglia in campo aperto con Silvio Berlusconi, la Procura di Milano ha messo alla luce tutte le sue fratture, e alla fine il Csm non ha potuto fare finta di niente. Il documento finale della Settima commissione cerca di salvare il salvabile, sostenendo che comunque le violazioni delle norme non hanno compromesso la efficienza e la validità delle indagini. Ma il nocciolo delle accuse di Robledo, e cioè la gestione dei fascicoli d'inchiesta secondo criteri elastici, di comodo e a volte oscuri, ha trovato almeno in parte conferme. Conferme sono arrivate anche per la più celebre e dirompente delle inchieste finite nell'esposto di Robledo, l'inchiesta su Silvio Berlusconi per il caso Ruby, di cui Ilda Boccassini ottenne la gestione con la benedizione di Bruti nonostante non avesse nulla a che fare con le sue competenze. Sul caso Ruby la commissione non ritiene che Bruti abbia commesso illeciti disciplinari, ma chiede comunque che se ne tenga conto al momento, il prossimo autunno, in cui si dovrà valutare la sua richiesta di restare in carica: il provvedimento che assegnava il caso alla Boccassini è «privo di motivazione della cui opportunità (se non addirittura necessità) non può dubitarsi», considerato anche che nelle carte c'era già il nome dell'allora presidente del Consiglio.

Se avesse detto di «no» a Ilda Boccassini, Bruti Liberati avrebbe «scongiurata qualunque possibilità di rischio di esporre l'ufficio al pur semplice sospetto di una gestione personalistica di indagini delicate concernenti un esponente di spicco della politica nazionale».

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