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L'accusa choc della reporter: "La mia vita vale 70 dollari"

Un articolo della freelance Francesca Borri scatena il dibattito fra i lettori e i suoi colleghi: è giusto rischiare (senza garanzie) per fare informazione?

L'accusa choc della reporter: "La mia vita vale 70 dollari"

C'era una volta l'inviato di guerra, figura leggendaria, mito di generazioni di aspiranti giornalisti, uomo avvezzo a tutti i rum, a tutti gli Hilton e a tutte le pallottole. Ma i tempi cambiano, e la crisi cambia etica e budget dei giornali. Così dalle redazioni non parte più nessuno. E i teatri di guerra si riempiono di reporter disperati e non garantiti pagati un tanto (o meglio: un poco) a pezzo, precariato del fronte, lavoro nero in mezzo al sangue, che vanno a rischiare la vita per giornali interessati solo allo scoop. È il grido di dolore lanciato da Francesca Borri, freelance (ovvero, libera professionista del giornalismo) che dalla Siria ha mandato alla Columbia Journalism Review una accorata lettera sul suo destino. Raccogliendo ondate di solidarietà ma anche qualche critica.

Cosa dice la Borri, nel suo articolo iper-linkato e iper-commentato? Racconta della sua vita in Siria, ad Aleppo, sotto le bombe, a fare i conti col tifo, con i colleghi sciacalli, con l'ignoranza e la superficialità dei capiredattori dei giornali per cui scrive. Esempio: un faticoso reportage sul sistema di servizi sociali che sta alla base del consenso agli Islamici, accolto dal capo con un crudele «E questo che roba è? Seimila parole e non è morto nessuno». Tutto ciò, lamenta Borri, per uno stipendio da fame: gli articoli sono pagati settanta dollari l'uno, e ai capi poco importa se vengono da Aleppo, da Gaza o da Roma.

Appena la lettera-articolo della freeelance italiana viene pubblicata sulla Columbia Journalism Review, iniziano a fioccare i commenti. L'articolo viene tradotto e arriva in Italia, rimbalza di blog in blog in modo - come si dice ora - virale. Suscitando un vespaio di polemiche. Ma testimoniando anche come in fondo l'icona del reporter con l'elmetto - a decenni di distanza dalle epopee dei Corradi, delle Fallaci, dei Lami - continui a fare parte dell'immaginario collettivo e a toccare corde sensibili.

La maggior parte dei commenti sono dalla parte di Francesca, del suo entusiasmo, anzi della sua «urgenza» di raccontare. Ma già tra le prime reazioni ospitate dalla Review non mancano i critici: da quelli bruschi («nessuno ti obbliga a restare in Siria») a quelli più apertamente polemici («i freelance selvaggi come te stanno distruggendo questo lavoro accettando di andare in zone di guerra per settanta dollari al giorno»). E quando l'articolo rimbalza in Italia, la scena si ripete. Il mestiere del giornalista sta cambiando, precariato e paghe basse sono una realtà da anni. Ma che la mutazione tocchi anche i teatri di guerra è una realtà su cui solo l'articolo della Borri sembra avere sollevato il silenzio. Addio alla vecchie pellacce ben pagate, in grado di coprirsi le spalle e annusare notizie allungando verdoni agli stringer, gli informatori locali; capaci di raccontare una tragedia da bordo piscina, ma anche di rischiare davvero la pelle se necessario: possibilmente col satellitare nello zaino e una assicurazione sulla vita a sostenere eventuali vedove ed orfani. Il conflitto globale è oggi il posto di lavoro dei nuovi paria dell'informazione, la nuova frontiera dei non garantiti nell'epoca di Internet e dei tweet. Ma le cose stanno davvero così?

Anche in Italia le reazioni si dividono: la maggior parte - e spesso sono altri freelance, o ex freelance, o aspiranti freelance - si schierano con risolutezza dalla parte di Francesca Borri e della sua «urgenza». Però ci sono anche quelli che la contestano e la accusano di narcisismo. E dunque? «Io non conosco Francesca personalmente - racconta Fausto Biloslavo, reporter di guerra e firma del Giornale - ma incontro molti come lei. Sono tanti, sono sempre di più, anche se la polemica sui parachute reporters c'era anche ai tempi del sud est asiatico. La differenza è che oggi i giornali sono in crisi e pagano sempre meno. Ma la differenza è anche che molti di questi reporter vengono dal mondo delle Ong, del volontariato, e si portano dietro un eccesso di idealismo. Se vuoi fare l'inviato di guerra serve un po' di pelo sullo stomaco.

Altrimenti finisci per partire per posti pazzeschi senza neanche la certezza di venire pagato. Intendiamoci: sbagli che ho fatto anche io.

Ma che non rifarei».

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