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Lavoro, Camusso all'attacco. Ma pure la sinistra la scarica

Addio all'unità sindacale. Bonanni boccia il "furore ideologico" della Cgil. E Palazzo Chigi gioca di sponda trattando con l'ala sinistra della Fiom

Lavoro, Camusso all'attacco. Ma pure la sinistra la scarica

Roma - Un film già visto. Tanto che ieri a Romano Prodi, protagonista di uno dei prequel, è tornato in mente quando tentò di fare qualcosa di gradito a maggioranza e parti sociali e loro, per tutta risposta «sputarono sopra le mie idee».
Matteo Renzi dovrà prepararsi a un trattamento simile a quello del suo predecessore, perché la Cgil è tornata a officiare il rito dei no alle intese. Che arrivano, come tradizione, dopo bevi apparenti schiarite. I fatti sono noti. Il governo non convoca i sindacati confederali. Cisl e Uil chiedono segnali forti sulle buste paga dei lavoratori. Anche Susanna Camusso, leader della Cgil, li chiede, ma insiste soprattutto affinché il nuovo premier convochi le confederazioni. Renzi si nega, gioca di sponda tatticamente con i metalmeccanici della Fiom di Maurizio Landini, ala sinistra della confederazione. Non può essere lui, fan di Blair e premier delle decisioni veloci, a resuscitare il rito della concertazione, archiviato da sei anni.
Quindi il governo approva, in perfetta solitudine dal punto di vista delle parti sociali (Confindustria compresa), un piano fiscale in linea con le richieste dei sindacati. Poi un decreto lavoro che introduce flessibilità in entrata e cancella le rigidità introdotte dalla riforma Fornero, come chiedono le aziende.

Camusso prima esprime soddisfazione, salvo poi cambiare idea e chiedere un improbabile ritiro del decreto sul lavoro per fare partire il confronto con i sindacati. Arriva a minacciare lo sciopero generale, ma non può non sapere che il suo obiettivo è irraggiungibile. Al massimo una posizione di bandiera.
Dalla sua parte trova infatti solo la minoranza Pd di Stefano Fassina. Ieri l'endorsement scontato di Nichi Vendola. Tacciono persino esponenti labour del Pd come Cesare Damiano. Appare quindi un'arma spuntata quel «cercheremo di cambiare il decreto in Parlamento» annunciato ieri dalla stessa Camusso.
Se si vuole il paradosso è che questo è il governo che avrebbe potuto mettere d'accordo tutte le parti sociali. Gradito alle imprese; di sinistra, ma guidato da un cattolico. In un paio di settimane ha ottenuto il contrario. I tre principali sindacati si sono di nuovo divisi.

In particolare la Cisl, dopo mesi di unità sindacale, ha marcato la distanza di nuovo dalla Cgil. Raffaele Bonanni parla di «furore ideologico» da parte degli «altri sindacati», quindi della Cgil. Non capisce l'accanimento verso una forma di contratto, quello a termine, che ha le stesse tutele del più tipico dei rapporti di lavoro: salario, diritti, tutele e previdenza. Soprattutto in un periodo di disoccupazione, precarietà e lavoro nero. «Peraltro moltissimi contratti a termine si trasformano in contratti a tempo indeterminato, perché le aziende non vogliono perdere le professionalità acquisite», osserva.
I no della Camusso sono stati per ora frenati dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Le misure su contratti a termine e apprendistato, ha spiegato, «servono a creare le precondizioni affinché le imprese italiane possano riprendere a investire e produrre. E quindi ad assumere. Cosa che potrà accadere con meno vincoli».

Ma il merito del decreto e dei ddl del governo Renzi c'entra poco con il ritorno della Cgil all'opposizione. Il principale sindacato soffre della crisi di tutte le organizzazioni confederali centralizzate, Confindustria compresa, da quando i governi, a partire dall'ultimo guidato da Berlusconi, si sono rifiutati di fare entrare le confederazioni nella stanza dei bottoni. Di «no», Camusso ne pronuncerà altri. La palla è in mano a Renzi che dovrà decidere se andare avanti con il via libera di una sola parte del mondo sindacale.

Monti e Letta, non ci riuscirono.

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