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Letta jr, l'ex enfant prodige che si è smarrito per strada

A 32 anni con D'Alema è stato a Palazzo Chigi, a 46 è il vice senza voce del Pd di Bersani. Il suo problema? E' troppo timoroso, bela invece di tuonare. E presto sarà da rottamare

Letta jr, l'ex enfant prodige che si è smarrito per strada

Era partito in quarta, Enrico Letta. Nel 1998, fu ministro a 32 anni. Il più giovane della storia repubblicana. Bruciò il primato di Giulio Andreotti che lo era stato a trentacinque. L'anno dopo, fatte le ossa nel piccolo dicastero delle Politiche comunitarie, passò all'Industria. Ministero gigantesco, buono per marpioni ultracinquantenni come i predecessori, i Marcora, i Donat Cattin, i Gava. Eppure, sbarbatello com'era, il nipote di Gianni Letta ce la fece. Per un anno e mezzo, governò con naturalezza officine e opifici della settima potenza industriale dandoci l'impressione che fosse nato un fenomeno dal grande avvenire.
Sono passati undici anni. Enrico ha perso capelli e le sue diottrie sono aumentate. Ma lui è rimasto immobile. La sua fama ristagna, le attese sono sospese. Nel frattempo, la pidiellina Giorgia Meloni, diventata nel 2008 ministro della Gioventù a 31 anni, gli ha anche soffiato il record juniores.
Questo stallo è durato troppo. O Enricone - veleggia sull' 1,85 - la smette di fare la bella statuina e il giovincello di vaghe speranze, o - a 46 anni suonati - finisce pure lui tra i politici da rottamare. Con più ragione perfino di Pier Luigi Bersani che di anni ne ha sessanta, ma un passettino al giorno cerca di farlo. Nulla di peggio che avere, come Letta, un avvio bruciante e poi impantanarsi senza ripetere mai, neppure per sbaglio, gli exploit del passato. Presto si dirà che quello che poteva dare lo ha dato e che il suo ciclo è concluso.

Non bastano, gentile Enrico, l'aspetto giovanile e l'anagrafe favorevole. L'uno e l'altra sono illusori e la delicata situazione in cui lei versa richiama alla mente quell'amante gozzaniana «da tanto tempo bella, non più bella fra poco», destinata in breve alla sfioritura e all'abbandono.
Reagisca. Dica chiaramente come la pensa. Smetta con le mezze parole, timoroso di mettere i piedi nel piatto come in certe sue interviste. Come giudica la Bossi-Fini?, le fu chiesto. «Giusto combattere l'immigrazione clandestina, ma dobbiamo integrare gli altri», rispose come la Sora Lella. Perché l'ascesa delle donne è ostacolata? «Questo è un argomento spinoso, quasi una tragedia», fu la sua replica, illuminante come un faro spento.

Del Pd, lei è vicesegretario. Ma come esercita la sua autorità? Di formazione quasi liberale in economia, lascia che il responsabile economico, Stefano Fassina, socialisteggi a tutto spiano senza chiederne la testa? E se pure la chiede, non si sente umiliato vedendo che Bersani fa lo gnorri e sta dalla parte dell'altro? Lei - ne prenda atto - è un vice senza voce. Come si fa allora a credere al «patto di Rimini» con Maurizio Lupi sul ripristino della vecchia tradizione di concedere la presidenza di una delle due Camere all'opposizione? La ciurma con cui è imbarcato - i Vendola e le Bindi - getterà la sua promessa alle ortiche, disconoscendole alla radice il prestigio per farla. Lei è all'angolo. Se non ne esce, la murano. Quando in luglio, il Cav annunciò che sarebbe tornato nell'agone politico, lei esclamò con orrore: «Berlusconi è una mina», aggiungendo che l'attuale alleanza tra destra e sinistra funzionava solo senza di lui. E fece questa osservazione interessante: c'è il rischio che rinasca «la logica dell'antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere». Dunque, non temeva tanto Berlusconi in sé, quanto la paranoia del Pd&Co di fronte a lui. Capisco e condivido. Mi sfugge invece perché si limiti a belare e non combatta a viso aperto la seguente battaglia: indurre la sinistra - cui ha scelto di appartenere, nonostante la sua buona educazione - a rispettare gli avversari, combatterli con lealtà e, in ogni caso, a sedare le sue escandescenze tramite il Valium, o principio attivo equivalente. Se ne trovasse il coraggio, diventerebbe capofila dei raziocinanti del Pd, riacquistando una fisionomia virile perduta galleggiando come un'ameba.

Il ribasso di Letta jr si vide plasticamente nell'aula di Montecitorio durante il dibattito sulla fiducia a Monti nel novembre 2011. Pensando che restasse riservata, Enrico scrisse al premier una letterina recapitata a mano da un commesso: «Mario, quando vuoi dirmi forma e modi con cui posso esserti utile dall'esterno. Sia ufficialmente, sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! Allora i miracoli esistono». Un papiello piuttosto untuoso e vagamente sleale di captatio benevolentiae per sé e il Pd. La cosa si riseppe all'istante perché un fotografo immortalò la lettera e l'ingrandimento ne rivelò il contenuto. Ma il punto è un altro. Nella stessa seduta, Monti anziché ringraziare Enrico Letta per la sponda che gli offriva, alzò gli occhi verso la tribuna e disse pubblicamente: «Sia ieri che oggi, una persona molto rispettata da tutti mi ha usato la cortesia di essere presente in tribuna, mi riferisco al dott. Gianni Letta». Lo zio di Enrico era infatti lì e, senza avere detto una parola, cancellava dalla scena il nipote. Ignoro se il giovanotto lo abbia fatto, ma il motivo di riflessione c'era.

Enrico appartiene alla terza generazione dei Letta. Il nonno era Vincenzo, stimato legale di Avezzano. Vennero poi i suoi otto figli, tra cui il secondogenito, Gianni, e il padre di Enrico. Gianni, 77 anni, è il patriarca. Debuttò, per arrotondare, come operaio nello zuccherificio avezzanese dei Torlonia. Fu detto Gianni Zolletta e sposò la figlia del direttore dello stabilimento. Divenne poi giornalista, direttore del Tempo, braccio destro del Cav, candidato al Quirinale. Il suo segreto fu avere letto una volta che dietro ogni grande carriera c'è una sveglia alle sei. Da quel giorno, Gianni Letta si svegliò alle sei meno un quarto. Della generazione oggi in pista, vanno citati, oltre a Enrico, almeno il cugino Guido, vicesegretario generale della Camera, e il cugino Giampaolo, figlio di Zolletta e presidente della berlusconiana Medusa film.
Nel solco di Gianni si è incamminato, finora zoppicando, Enrico che con lo zio ha un legame forte. Nonostante le rive politiche opposte, le divergenze sono inesistenti, appianate sul nascere da zio Gianni con chili di Lettolin, vaselina di sua produzione. Nato a Pisa, dove il padre insegnava, da mamma - Anna Bianchi - sassarese e vicina di casa di Cossiga, Enrico trascorse l'adolescenza a Strasburgo. A Pisa si laureò in Diritto internazionale e si specializzò in Diritto Ue. Ha due matrimoni alle spalle. Dal secondo, con Gianna Fregonara, giornalista del Corsera, ha avuto tre maschietti.

Mentore politico di Enrico fu Beniamino Andreatta, dc di sinistra nella cui cerchia ruotava Prodi. Così, anni dopo, nel 2006, Romano lo nominò sottosegretario alla presidenza del suo governo. L'ingresso di Enrico a Palazzo Chigi simboleggiò due volte il trionfo dei Letta. Il giorno dell'insediamento, scambiando il ruolo con lo zio che ricopriva lo stesso incarico nel governo uscente del Cav. Due anni dopo, quando zio e nipote, l'uno in entrata, l'altro in uscita, si ripassarono il testimone.

I Letta: ovvero come cascare sempre in piedi.

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