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Letta ostaggio di Colle e Pd corre a salvare il ministro

L'arringa del premier: "Sfiduciare il Guardasigilli significa far cadere il governo". I renziani nicchiano: "L'obiettivo restano le dimissioni". Cuperlo: "Noi responsabili"

Letta ostaggio di Colle e Pd corre a salvare il ministro

Sussurrano che fosse l'ultima cosa che Enrico Letta avrebbe voluto fare. Invece le pressioni dal basso (i parlamentari Pd, che rischiavano di mettere in minoranza la Cancellieri e con lei il premier) e dall'alto (il Colle, che di dimissioni del Guardasigilli non vuol sentire neppure parlare) lo hanno costretto, come sottolinea con perfidia Matteo Renzi, a «metterci la faccia», nonchè a mettere sul piatto della bilancia l'intero esecutivo. E a presentarsi ieri sera all'assemblea dei deputati Pd - reduce da un viaggio lampo a Olbia - spiegando con toni drammatici che «un voto di sfiducia alla Cancellieri sarebbe un voto di sfiducia al governo». Poi l'appello: «So che la pensiamo diversamente, ma vi chiedo responsabilità: l'unità del Pd è l'unico punto di tenuta del sistema italiano. Rifiutate una mozione di sfiducia che è un attacco politico al governo». Appello prontamente accolto da Gianni Cuperlo: «Dobbiamo essere responsabili, e riscoprire il valore dell'unità». Mentre il renziano Paolo Gentiloni è meno tenero: «Prendiamo atto con rammarico ma rimane l'obiettivo di ottenere, dopo avere respinto l'attacco politico, un gesto di responsabilità del ministro».

Se Letta ha deciso di «metterci la faccia» e di drammatizzare così, è perché la situazione stava scappando di mano, e né il segretario Epifani né il capogruppo Speranza, e neppure il ministro Dario Franceschini hanno voluto metterci la loro. Epifani lo ha detto chiaro e tondo, che «il governo non può nascondersi dietro al segretario». «O vai tu a spiegarlo ai deputati, e metti in gioco il sostegno all'esecutivo, oppure finisce con una conta, e finisce male», è stato il tenore dei loro ragionamenti con il premier, durante una giornata di frenetici contatti.

Già, perché i numeri, per il governo, non tornavano. I renziani, come Civati, erano pronti a chiedere di votare la posizione da prendere sul caso Cancellieri. E come spiegava il vicepresidente dei deputati Andrea Martella, «se si va alla conta, la linea pro dimissioni passa». Il problema è che nel Pd è in corso una durissima battaglia congressuale: «Renzi non vuol farsi scavalcare a sinistra da Civati, Civati da Cuperlo e Cuperlo da Renzi», dice Emanuele Fiano. L'ordine del giorno pro dimissioni dei renziani, da sottoporre al voto del gruppo, era già pronto. Una cosa era chiara a tutti, come spiegava Speranza ad alcuni parlamentari: «Se il gruppo Pd si pronuncia a maggioranza per le dimissioni, non si arriva neanche al voto di sfiducia dell'aula, visto che più di mezzo Parlamento è nostro». Ma il voto sarebbe inevitabilmente suonato come una scomunica per il governo. Lontano da Montecitorio, il sindaco di Firenze la metteva giù molto dura: «Ci sono solo due alternative: o il premier va al gruppo Pd e dice “sulla Cancellieri ci metto la faccia, non bisogna toccarla”. Oppure il gruppo vota, e secondo me deve votare per le dimissioni. Fossi in Letta non ci metterei la faccia, ma se decide di farlo, lo dica al gruppo». Un modo per segnare una netta distanza: da una parte, con Letta e con Epifani, il «vecchio» Pd, pronto a salvare un ministro che «ha sbagliato» pur di tenere in piedi questo governo. Dall'altra il «nuovo» Pd di Renzi. I fedelissimi del premier, in Trnasatlantico, si sfogavano infuriati contro il sindaco che «non perde occasioni per fare sgambetti a Enrico», e che «è pronto a strumentalizzare qualunque cosa per indebolirlo. Ma intanto questa volta si deve allineare lui».

I renziani controbattono: «Dall'8 dicembre però la musica cambia e Letta dovrà fare i conti con un segretario non disposto a tergiversare».

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