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L'ex toga pretende ciò che il Cav aspetta da anni il commento 2

di C'è un profilo interessante nella sconvolgente (ma forse per lui inevitabile) telefonata del presidente del Senato Pietro Grasso alla trasmissione diretta da Santoro, nella quale io ero ospite. Quando la redazione ha annunciato l'irruzione, c'è stata in noi una reazione tra l'incredulità e lo sconcerto. Grasso, super partes, entrava nell'arena, irritato e ferito, dalle considerazioni, parzialmente fondate, e inequivocabilmente diffamatorie, (in assenza di qualunque indagine penale) di Marco Travaglio. Poteva sembrare uno scherzo, ma non c'era dubbio che, se vera, la telefonata avrebbe legittimato l'autorevolezza della sede, considerata degna di interloquire con un presidente del Senato. Questo privilegio non fu mai accordato neppure alla cosiddetta «Terza Camera» dello Stato, Porta a Porta di Bruno Vespa. Invece Grasso riconosceva il rango di Servizio Pubblico come istituzione, per annunciare non querele, non chiarimenti, ma un duello. Presto, subito, il presidente del Senato non può aspettare. E, però, non in quel momento, e neppure fra una settimana. Alla prossima puntata. No. Grasso, finalmente parlando, manifestava il suo disappunto per le affermazioni di Travaglio ed esigeva soddisfazioni in tempi brevissimi, in una trasmissione di pari dignità, dove confrontarsi con Travaglio. Neanche i suoi predecessori, in irruzioni televisive, chez Santoro, Silvio Berlusconi e Mauro Masi, avevano preteso tanto. Io ho voluto spiegare perché Grasso non potesse aspettare neppure una settimana. Non per il suo altissimo e recentissimo rango, ma perché candidato al ruolo di presidente del Consiglio incaricato di un possibile governo istituzionale. Per questo non poteva tollerare una macchia come quella, vistosa, fatta cadere da Travaglio. E poi riconfermata, senza arretrare di un passo, durante l'accorato sfogo del presidente del Senato. Tutto chiaro e preciso dunque. Ma, a parte l'opportunità o l'inevitabilità di cedere agli istinti (e può essere bello che l'uomo, con la sua dignità, prevalga sulla carica), Grasso non ha considerato di essere stato un magistrato. E di non poter fingere di non conoscere che, dal presidente della Repubblica (come si è visto con le infamie alluse dal procuratore Messineo e dai suoi sostituti, Di Matteo e Ingroia) all'ultimo cittadino, nessun indagato o imputato riesce ad avere soddisfazione di accuse false sostenute in un processo da un pm, in una posizione molto più forte e suggestiva di quella di un giornalista. Soltanto pochi giorni fa su Il Giornale, una lettera di Anisja Palmero, ci racconta dell'arresto del compagno Federico Paraschiva, che dal 3 dicembre non è stato ancora interrogato. Ora, come può pretendere Grasso di essere più uguale degli altri? Per quale ragione egli dovrebbe avere immediato ristoro di una diffamazione eventuale? Questa posizione rivela la sua umana debolezza e può anche meritare comprensione, ma esprime una doppia arroganza del ruolo. Una vera e propria prepotenza. Ma perché chiunque deve aspettare, e Grasso no? Grasso non accetta che sia messa in discussione la sua integrità di magistrato. Ma sono centinaia, migliaia, gli indagati, gli arrestati, in attesa di giudizio. E nessuno lo sa meglio di Grasso. L'infamia potrebbe far ricredere Giorgio Napolitano, per non lasciare i cittadini con il sospetto di avere un presidente del Consiglio che ha accettato privilegi e compromessi. Per Berlusconi non c'è mai fine. Grasso non vuole neanche l'inizio. Gli italiani hanno convissuto con un presidente del Consiglio accusato di ogni reato e tuttora in attesa di giudizio, ma Grasso non può accettarlo per sé. Ma Grasso dimentica, mentre cerca di scrollarsi di dosso Travaglio, che anche Napolitano, con la stessa tecnica (lo spettro della trattativa Stato-mafia) è stato macchiato da Ingroia e da Travaglio. E lo è ancora nonostante la sentenza della Consulta. Proprio per questo poteva (ma non lo ha fatto) ignorare Travaglio e considerare che Napolitano, nelle sue stesse condizioni, potrebbe anche non dar peso alle insinuazioni, a quelle che lui ritiene «accuse infamanti». Non è stato capace di resistere, ha sentito la propria maestà lesa. Ora accetti con pazienza il proprio turno e i tempi lunghi del giudizio (anche soltanto morale).

Come qualsiasi altro cittadino.

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