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Quelle ore drammatiche tra il Cavaliere e Angelino

Il conduttore Rai ripercorre nel nuovo saggio i momenti convulsi del 28 settembre, quando si è consumato il primo strappo tra i leader

Quelle ore drammatiche tra il Cavaliere e Angelino

Esce oggi in tutte le librerie la nuova fatica letteraria di Bruno Vespa Sale, zucchero e caffè. L'Italia che ho vissuto da nonna Aida alla Terza Repubblica edito da Mondadori Rai Eri. Un libro di ricordi e di testimonianze che partono dalla prima infanzia e arrivano al 31 ottobre, giorno in cui il libro è stato chiuso con l'ultima dichiarazione di Berlusconi. Si parte dalle rovine e le stragi della guerra e si passa via via alla ricostruzione, alle meraviglie del miracolo economico visto dalla provincia, agli anni Sessanta e dalla strage di piazza Fontana in poi anche alle testimonianze di Vespa come cronista della Rai dov'era arrivato vincendo il concorso, fino al potere (e all'arroganza) della Prima Repubblica, all'ascesa e alla caduta della Seconda. Pubblichiamo qui di seguito, in anteprima, ampi stralci tratti dalle pagine dal capitolo dieci del volume, dal titolo «L'ultimo assedio».

Tra il 25 e il 28 settembre ci fu un confronto durissimo tra i «falchi» e le «colombe» del Pdl, ribattezzati poi «lealisti» e «innovatori». Dicevano i primi (Denis Verdini, Daniela Santanchè, Sandro Bondi, Daniele Capezzone) parlando alla «pancia» del Cavaliere: apriamo la crisi, andiamo alle elezioni, le vinciamo e risolviamo tutti i problemi. Napolitano, insisteva Verdini, dovrà sciogliere le Camere perché non riuscirà a fare un altro governo. Rispondevano i secondi (Gianni Letta, Angelino Alfano, Fabrizio Cicchitto, i ministri) parlando al «cervello» di Berlusconi: se ci fosse una sola possibilità di andare alle elezioni, staremmo con te, caro presidente. Non siamo sicuri di vincere, ma l'emotività paga, e riusciremmo comunque a ottenere un risultato migliore di quello di febbraio. Ma non esiste nessuna possibilità che Napolitano sciolga le Camere. Fin da quando ha accettato la conferma, ha detto che lo faceva solo per consentire di cambiare la legge elettorale e di realizzare finalmente le riforme istituzionali. (...)
Rimanderà il governo alle Camere, Enrico Letta prenderà i voti di qualche grillino dissidente e andrà avanti. Oppure Napolitano accetterà le dimissioni dell'esecutivo, nominerà un nuovo presidente incaricato e si arriverà comunque all'impossibilità di votare entro l'anno. (...).
La sera di venerdì 27 settembre, in una cena comunitaria con le due anime del partito, il Cavaliere si convinse a non aprire la crisi e a votare la fiducia, che nel frattempo Letta aveva fissato per mercoledì 2 ottobre. Prese uno dei pennarelli grigi con la punta grossa che si trovano su ogni tavolo a Roma e ad Arcore e cominciò a scrivere il comunicato con cui annunciare la decisione. Non lo completò, ne riassunse la sostanza ai suoi ospiti quando questi si erano già alzati per congedarsi, e concluse: «È tardi, ormai. Lo scrivo e lo diffondo domani da Milano». La mattina di sabato 28, Berlusconi ricevette ad Arcore una telefonata di Cicchitto: «Ricordi di dover scrivere il comunicato per annunciare che voteremo la fiducia al governo?». «Non trovo il mio appunto di ieri sera» rispose il Cavaliere. «Puoi riscrivere tu quello che abbiamo deciso?». Alle 11.30 Cicchitto trasmise ad Arcore la bozza del comunicato. Poco dopo Berlusconi ricevette Verdini e la Santanchè, che stavano organizzando la manifestazione promossa per il 4 ottobre (e in seguito annullata) contro la retroattività della legge Severino; poi arrivò Ghedini per la firma di un documento urgente, e infine si presentarono Bondi e la sua compagna Manuela Repetti con un regalo per il suo settantasettesimo compleanno, che sarebbe caduto l'indomani. (...).
Fatto sta che alla fine del pranzo, alle 15.30, la decisione sulla fiducia era stata presa. A quell'ora Ghedini chiamò al telefono Alfano, che si trovava in Val di Susa, per assicurare che il governo non avrebbe ceduto ai No Tav, e gli comunicò che Berlusconi chiedeva ai ministri di dimettersi. (...). Il ministro dell'Interno chiamò immediatamente Gianni Letta, ignaro dell'accaduto, e lui chiamò Arcore: «Potete mandarmi copia del comunicato?». Apprese così che Berlusconi invitava la delegazione del Pdl al governo «a valutare l'opportunità di presentare immediate dimissioni contro l'odiosa vessazione dell'aumento dell'Iva». (...). Letta parlò finalmente con il Cavaliere, che per la prima volta lo aveva tenuto all'oscuro di una decisione così traumatica. «Commetti un gravissimo errore» gli disse. Ma Berlusconi era deciso ad andare avanti. Alle 18.15 le dimissioni di tutti i parlamentari del Pdl erano ufficiali. «Noi abbiamo sempre detto che le nostre dimissioni erano nelle mani del partito e del suo leader» mi racconta Alfano. «Per questo, appena ci furono chieste, le abbiamo date».
Tuttavia, in quel momento nacque un nuovo tipo di fedeltà del «figlio» nei confronti del «padre»: Alfano si definì «diversamente berlusconiano» e decise per la prima volta di disubbidire. Con lui si schierarono compatti gli altri quattro ministri: Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo. Il Giornale di Alessandro Sallusti prese ad attaccarli con durezza, e i cinque fecero sapere che con loro non avrebbe funzionato il «metodo Boffo» (...).
La giornata chiave fu martedì 1° ottobre, vigilia del dibattito in Parlamento. Quagliariello chiamò il Cavaliere: «Dobbiamo decidere subito che atteggiamento prendere. Non possiamo sedere al banco del governo e votare la sfiducia. Ma se decidiamo di votare la fiducia, o ritiriamo noi le dimissioni o ce le facciamo respingere da Letta». «Meglio se ve le fate respingere» suggerì lui. Quagliariello lo riferì ad Alfano, che rispose: «Scusami, ma una decisione del genere voglio sentirla con le mie orecchie». Chiamò, perciò, Berlusconi alla presenza del ministro delle Riforme e si sentì ripetere la stessa cosa. Era una decisione del «cervello» e non della «pancia», perché dopo questa telefonata il Cavaliere incontrò di nuovo i «falchi» e, il mercoledì mattina, giorno del dibattito sulla fiducia, il Giornale - che interpreta meglio di ogni altro i suoi umori - titolava: «Alfano tradisce. Un pezzo di Pdl passa con la sinistra in cambio di poltrone. Berlusconi resiste: voto la sfiducia». Ci furono in quelle ore incontri e convulsioni di ogni genere. «Sono legato a Berlusconi da un affetto profondissimo» mi dice Alfano «e perciò ho vissuto molto male il rischio di una lacerazione del rapporto con lui, perché gli voglio bene e ho una profonda riconoscenza nei suoi confronti. Per l'intero pomeriggio del giorno che precedette il voto sono stato in contatto con lui, gli ho riparlato durante la notte e ho visto una profonda macerazione riguardo alla scelta giusta da compiere sul voto di fiducia. Ecco perché non agivo nella logica del dissenso da lui, ma in quella del convincimento, che mi sembrava avesse dato buon esito nel corso del pomeriggio (...)».
«Alfano è stato per molti anni mio assistente personale» ricorda Berlusconi «e sono stato io a proporlo alla direzione nazionale per la carica di segretario. Lui e gli altri ministri mi hanno confermato di aver presentato le dimissioni per un atto di solidarietà nei miei confronti, ma hanno ribadito di aver sempre sostenuto lealmente la necessità che il governo Letta continuasse a lavorare. Erano e sono convinti che la crisi non avrebbe portato alle elezioni, ma casomai a un governo peggiore dell'attuale». (...).
La mattina di mercoledì 2 ottobre, giorno della fiducia, 23 senatori del Pdl dissero che l'avrebbero votata, anche in dissenso dal partito. Berlusconi incontrò altri 57 senatori: 23 dissero che sarebbero usciti dall'aula al momento del voto e 34 che avrebbero votato la sfiducia. (...).
Il capogruppo dei senatori, Renato Schifani, informò all'ultimo momento il Cavaliere che non se la sentiva di fare la dichiarazione di voto sulla sfiducia. «Togliere la fiducia al governo sarebbe stata la decisione giusta» mi spiega Berlusconi «ma dopo aver parlato con un ministro e constatato che insistevano nel votare la fiducia, per non spaccare in due il partito, contro il parere dei 57 che avevo consultato mi sono alzato in Senato e ho detto che avremmo votato la fiducia».
Quando lo fece erano le 13.27. Enrico Letta si voltò verso Alfano e disse: «È un grande». Incassata la fiducia, i due si diedero il «cinque», e quell'immagine si scolpì nella memoria di Berlusconi come il segno tangibile della sconfitta, che non ha mai dimenticato e che portò alla contromossa del 25 ottobre, con l'azzeramento delle cariche, la cancellazione del Pdl (...).
Comunque vadano le cose, alla fine di questa lunga battaglia, il rapporto personale tra il Cavaliere e Angelino ha subìto una frattura irreversibile. Lui ne parla con stima e con affetto, ma se abbassa la voce e ti guarda dritto negli occhi, gli scappa la frase terribile e definitiva: «Angelino ha tradito».


E al vecchio cronista torna in mente l'8 febbraio 2008, quando il leader del centrodestra lasciò a piedi Casini per le imminenti elezioni anticipate, perché non aveva dimenticato lo sgarro del 2005 quando l'Udc lo costrinse alle forche caudine del Berlusconi bis.

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