Economia

Mediobanca, chiude l'era dei salotti buoni

Tramonta il "salotto" nel quale Cuccia governava la finanza e decideva i destini del sistema economico privato

La sede di Mediobanca in piazzetta Cuccia, a Milano
La sede di Mediobanca in piazzetta Cuccia, a Milano

Da ieri, quella riunione carbonara di 21 anni fa che Enrico Cuccia convocò in Mediobanca con Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti, Leopoldo Pirelli e pochi altri mostri sacri del potere, per far fronte unico contro i pm di Mani Pulite - come l'ha rivelata Luigi Bisignani - suona morta e sepolta per sempre. Perché da ieri la Mediobanca che abbiamo conosciuto dalla sua fondazione, nel 1946, non c'è più. Ce n'è un'altra. Tramonta il «salotto» nel quale Cuccia, disponendo da un lato di capitali illimitati attraverso la provvista delle tre Banche di Interesse Nazionale (Comit, Credit, BancaRoma) e conoscendo dall'altro tutte le debolezze del nostro fragile capitalismo del dopoguerra, governava la finanza e decideva i destini del sistema economico privato. Fiat, Montedison, Fondiaria, Generali, Pirelli, Olivetti. Bastava avere un 2-3%, dosarlo in una catena di scatole societarie aperte al parco buoi e tutto si teneva, tutto si intrecciava, anche la politica quando serviva, in quel salotto, alternativo e preferito al mercato. Nel bene e nel male. Da ieri la Mediobanca che continua a esistere e a risiedere nel seicentesco milanese Palazzo Visconti-Ajmi è un'altra cosa: una banca d'investimento pura, che chiude il salotto e si trasferisce sul mercato. Rinuncia alle rendite di potere, per andarsi a cercare le risorse nel pubblico dei depositanti e gli utili nella sfida ai concorrenti.

Questo è il succo del piano industriale triennale presentato dall'ad Alberto Nagel, dopo che i suoi soci lo avevano approvato all'unanimità. Sia chiaro: per Nagel la scelta - pur cercata con insistenza da dieci anni, cioè dalla defenestrazione del delfino di Cuccia, Vincenzo Maranghi - è stata obbligata, perché in quel salotto ormai non c'è più nessuno da invitare. La crisi, impoverendo del 60-70-80% i valori immobiliari e finanziari nei bilanci delle banche, delle aziende e delle assicurazioni, ha cambiato i connotati al vecchio sistema di relazioni, facendo saltare per aria anche gli ultimi rimasti: il crac di Salvatore Ligresti specchiato nel dissesto di Fonsai e l'uscita di scena di Cesare Geronzi, rigettato dal corpo delle Generali non più disponibili a operazioni di potere, hanno segnato la svolta. La debolezza della politica, riflessa nell'azzeramento di filiere di potere finanziario di riferimento, ha fatto il resto. Così Nagel ha ieri annunciato che Mediobanca uscirà dal Corriere della Sera, da Telecom, da Pirelli.

Mentre nelle Generali si diluirà al 10%, vendendo il 3. Così facendo la banca libererà due miliardi di capitale da utilizzare a copertura di una crescita a due cifre nei ricavi. Oltre che una rivoluzione è anche una scelta legata alle regole bancarie di Basilea3 che, richiedendo più elevati requisiti patrimoniali, avrebbero reso la vita difficile anche a Cuccia. Restano un dubbio e un'incognita. Il dubbio è se sia lo stesso management che ha lavorato per la rivoluzione quello ideale per portarla a termine: spesso chi mette fine al sistema di potere con il quale fino a poco prima veniva a patti non è forse il più indicato per guidare il nuovo corso. L'incognita è cosa succederà in questo Paese quando nuove operazioni di «sistema» si presenteranno all'orizzonte. L'impressione, come si è visto con Pirelli, è che lo spazio per farne ancora continuerà a esistere.

E, senza Mediobanca, sarà occupato da Intesa e Unicredit, uniche due banche italiane rimaste in grado di farlo.

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