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Monti dopo l'ennesimo flop deve dimettersi da senatore

L'ultimo flop di Mario Monti: alle Europee Scelta europea fa registrare un misero 0,7 per cento

Monti dopo l'ennesimo flop deve dimettersi da senatore

Nei già lugubri palazzi della politica italiana si aggirano decine di fantasmi. Senatori, deputati, sottosegretari, perfino un ministro che non rappresentano più nessuno. Forse nemmeno loro stessi. Sono quelli dello 0,7 per cento, dato che elettoralmente è una traccia, un ologramma, un fuoco fatuo, uno sbaffo a matita sul foglio dei risultati. Sono quelli di Scelta europea, che domenica ha ramazzato 197.942 voti. L'oblio totale è lì, a portata di mano. E miglior figura avrebbero fatto i montiani 2.0 a non presentarsi proprio.

Il giorno dopo la sparizione improvvisa è già regolamento di conti all'interno del partito desaparecido: qualcuno ha avviato una raccolta di firme per invocare le dimissioni dei capigruppo di Camera e Senato, Andrea Romano e Gianluca Susta, e di Stefania Giannini, segretario nazionale che ormai ha lo stesso umore della molecola di sodio nella celebre pubblicità di un'acqua minerale. Stasera l'assemblea del partito si trasformerà in una sorta di saloon. Difficile però immaginare che fuori da via Poli, sede romana della sigla, ci sarà la calca di militanti in attesa delle decisioni.

Uomo simbolo di questa dissolvenza è Mario Monti, che due anni e mezzo fa era il salvatore della patria e, secondo una improvvida copertina di Time, addirittura d'Europa, e dopo il tempo di una mezza legislatura è praticamente un politico in contumacia. A lui in realtà la patria fu affidata chiavi in mano alla fine del 2011 senza alcuna altra legittimazione che non fosse la nomina a senatore a vita apparecchiata in quattro e quattr'otto dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano già in odore di monarchia. Sembrava, Monti, l'uomo forte destinato a lasciare il segno; si rivelò per 17 mesi un gestore del rigore merkeliano, un facente funzioni opaco, un custode co.co.co. del sacro braciere dell'euro. Di tutto quel potere, di un appoggio parlamentare raffazzonato ma numericamente con pochi precedenti della storia repubblicana, resta solo la cadrega di senatore a vita, che Re Giorgio me l'ha data e guai a chi me la tocca.

Monti è stato il primo (e si spera ultimo) caso di vitalizio senatoriale concesso per sperati meriti futuri (poi abortiti) e non per lustri trascorsi. Se avesse un po' di amor proprio quel posto lo dovrebbe lasciare o quanto meno rinunciare a uno stipendio che è come un superenalotto vinto senza nemmeno aver acquistato il biglietto: perché Monti a Palazzo Madama ha una percentuale di presenze dello 0,46 per cento, figurando di fatto sempre in missione. Per conto di chi? Boh.
E pensare che quando Monti fu cooptato da Napolitano a Palazzo Chigi e coagulò attorno a sé molti corpi vaganti della galassia politica moderata, i sondaggisti accreditarono al suo brand un fatturato elettorale del 20 per cento. Primo ridimensionamento nel febbraio 2013, quando alle politiche il blocco di liste a sostegno della candidatura a premier di Monti, prese alla Camera il 10,5 per cento, dei quali l'8,3 a Scelta civica e il resto a Udc e Fli. Quei 2.824.065 voti per Monti quindici mesi dopo sono diventati i 197.942 per Scelta europea, che peraltro comprende anche Centro democratico e Fare. Come se in un anno Roma si rimpicciolisse in Taranto. Ma mantenendo i poteri della capitale: a Scelta civica sono infatti ascrivibili tuttora 27 deputati (46 considerando anche Per l'Italia), 8 senatori (che diventano 18 con gli uomini di Mario Mauro), un ministro (la Giannini alla Pubblica istruzione), un viceministro e tre sottosegretari.

Da domani chiamateli «zerovirgola».

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