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Perché i pm di Palermo non mollano Re Giorgio

Il processo sulla trattativa Stato-mafia è cruciale per la sopravvivenza della Procura

Perché i pm di Palermo non mollano Re Giorgio

La situazione, per certi versi, è simile. Allora, estate del 2012, c'era un Napolitano ormai agli sgoccioli del settennato che teneva in piedi un governo che si chiamava tecnico ma in realtà era di larghe intese, osteggiato dall'ala più estremista della sinistra e dai grillini. Oggi, autunno 2013, c'è un Napolitano ancora al Colle per un mandato bis, che sostiene un governo di larghe intese, osteggiato dagli stessi oltranzisti di prima, e cioè sinistra giustizialista, M5S e compagnia. In mezzo, allora come oggi, c'è una procura, quella di Palermo, che pur avendo perso il primo round - la Consulta ha dato ragione al Colle, e i pm hanno dovuto distruggere le quattro telefonate tra il capo dello Stato e l'ex ministro Nicola Mancino intercettate casualmente e al centro di uno dei conflitti istituzionali più pesanti mai apertisi in Italia - non molla, non vuole mollare Napolitano. E infatti lo cita come testimone in quello che si chiama processo sulla trattativa Stato-mafia ma che in realtà è un processo allo Stato, di ieri e anche di oggi visto che Napolitano è ancora in carica. Anzi, è la prima carica dello Stato.

«Procure usate come clave», disse nell'estate del 2012 il Pd Luciano Violante, quando lo scontro non solo tra Napolitano e i pm palermitani, ma anche all'interno della stessa sinistra (da un lato Eugenio Scalfari e Repubblica pro Colle, dall'altro il Fatto e Marco Travaglio contro il Quirinale) era al culmine. E l'atmosfera non è cambiata troppo. Napolitano è sempre al Quirinale, sostiene le larghe intese. Anzi, va oltre, propone provvedimenti di clemenza per risolvere l'emergenza carceri che a sinistra giustizialista e grillini non piacciono. Il Fatto, il primo a trascinare il Colle nella trattativa, è in prima linea nell'attaccarlo. Ed è in questo contesto che si innesta la situazione tutta particolare che in questo momento, proprio sul processo trattativa, vive la procura di Palermo.

Si stanno giocando il tutto per tutto, i pm guidati da Francesco Messineo, su questo caso ereditato dall'ex procuratore aggiunto - ora leader di Azione civile - Antonio Ingroia. E tanto più si stanno giocando tutto ora che il teorema trattativa è stato smontato pezzo per pezzo non da chiacchiere, ma da una sentenza, quella che ha assolto il generale Mario Mori dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia. Il verdetto, è solo di primo grado, certo. Ma si tratta pur sempre di un giudizio di merito che pesa come un macigno. Soprattutto perché il processo Mori era stato trasformato in una sorta di prova generale del futuro processo sulla trattativa.

Perché allora insistere su Napolitano, ben sapendo che il presidente nulla potrà dire di rilevante visto che il suo rapporto col defunto Loris D'Ambrosio - l'unico tema su cui sono ammesse domande - era quello tra il capo dello Stato e il suo consigliere giuridico? Perché la procura non può mollare, lo stesso Messineo e il pm di Matteo hanno in corso un'azione disciplinare per la storia delle intercettazioni. E perché, sulla situazione particolare della procura di Palermo, si innesta il quadro generale di cui parlavamo all'inizio. Allora come oggi c'è un'area politica che tiene sotto tiro il presidente. E un capo dello Stato in carica costretto a trasformare in aula di giustizia il Quirinale, magari con un Totò Riina collegato in videoconferenza, e obbligato a rispondere a pm e avvocati, fa buon gioco. Napolitano, se deporrà – il Colle sta valutando - sarà solo un testimone.

Ma chi lo ha attaccato e continua ad attaccarlo otterrà l'effetto che voleva: farlo apparire come un presidente sotto accusa.

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