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Province, brivido fiducia. Al Senato solo 160 "sì" e ora il premier trema

Il ddl Delrio passa a fatica tra resistenze e maldipancia di centristi e lettiani. Il Pd avvisa: basta prendere o lasciare

Province, brivido fiducia. Al Senato solo 160 "sì" e ora il premier trema

Roma - La prima fiducia del governo Renzi passa a palazzo Madama con 160 sì e 133 no. Prova superata, ma con nove voti in meno rispetto alla partenza del governo, tra assenze e qualche frondista dei Popolari per l'Italia di Mario Mauro, che aveva prima minacciato il no all'abolizione delle Province (per ottenere l'abbassamento delle invalicabili soglie dell'Italicum, che li condannano a fine prematura), per poi rientrare «per lealtà di maggioranza». Un avvertimento a Renzi dalla «mala bestia» del Senato.
Il premier non ha chiesto la fiducia a cuor leggero, ma vista l'aria di trappole, capricci e ostruzionismo occulto che si respira a palazzo Madama ha preferito tagliar corto e mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, anche a futura memoria. Perché il ddl sulle Province è solo l'antipasto, peraltro ereditato dal precedente governo, del tour de force di riforme che Renzi sta imponendo alla «palude» della politica romana, compreso il suo stesso partito. Il piatto forte, e il più indigesto al vasto e trasversale fronte della conservazione, deve ancora arrivare: l'Italicum, naturalmente, e l'abolizione del bicameralismo.

Non è un caso se ieri, da Scalea in Calabria dove era per la consueta visita del mercoledì ad una scuola, il premier ha alzato la posta: «Se il Senato non viene superato, se non iniziamo a mandare a casa un modello istituzionale e politico che non funziona, smetto io di fare politica». Una minaccia da prendere sul serio, a sentire i suoi, perché sono concetti che Renzi ripete pure in privato: «Se pensano che io pur di restare a palazzo Chigi accetti di farmi logorare e di annacquare le riforme a forza di compromessi fino a renderle inutili, avranno brutte sorprese», è il suo refrain. E chi conosce bene il premier avverte che, piuttosto che farsi inghiottire dalle sabbie mobili della politica italiana, l'uomo sarebbe capacissimo di «sbattere la porta e andarsene». Non senza levarsi la soddisfazione di denunciare davanti alla pubblica opinione i colpevoli dell'immobilismo. Nel Pd iniziano a capirlo, e per questo anche il fronte anti-Renzi interno si è fatto più prudente. «In questo momento nessuno è in grado di mettersi apertamente di traverso, nonostante i mal di pancia che provoca il suo atteggiamento da “prendere o lasciare”, confida un lettiano. Già, il decisionismo del premier provoca le vertigini ad un partito come il Pd, da sempre allergico alla leadership, ma i sondaggi sono dalla sua e le alternative non esistono: il Pd è costretto a seguirlo. E a sperare che siano altri a farlo inciampare. Ad esempio Berlusconi: l'asse con Forza Italia, scossa dai terremoti interni e spaventata dal timore di regalare voti a Grillo e allo stesso Renzi, scricchiola, mettendo a rischio la riforma del Senato che il governo vorrebbe far votare prima delle Europee.

Ma il premier ha messo sul piatto un'offerta allettante, che renderebbe assai difficile ai berlusconiani dire di no: il rafforzamento dei poteri del premier, da abbinare alla soppressione di quelli del Senato. Revoca dei ministri e corsie preferenziali in Parlamento per i provvedimenti governativi: un pacchetto di norme, spiegano dal governo, concordato con Fi e che «renderà più solido l'asse per far passare la riforma». Dal fronte berlusconiano arriva il via libera: «Siamo pronti a sostenerlo», dice Elena Centemero.

Con buona pace della Cgil, che lancia l'allarme contro la «mortificazione del Parlamento».

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