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Quattro voti regalati alla sinistra

 Napolitano sceglie i nuovi senatori a vita: altri "sì" assicurati all'eventuale governo del ribaltone, sognato da parte del Pd

Quattro voti regalati alla sinistra

Roma - S'ode a sinistra squillo di tromba, a dritta Enrico il Giovane ritrova corazza, anzi quattro bei corazzieri recapitati freschi freschi (si fa per dire) dal Quirinale, il Pd va in carrozza, anzi Carrozza, visto che la ministra è la più lesta a propagandare gioia per l'Urbe e l'orbe. Habemus Senatores, annuncia la Torretta del Quirinale, «abbiamo i senatori a vita». I nuovi che rimpiazzano e rimpolpano le schiere pro maggioranza. Senatores pro vita, vita Lectis, s'intende. Ovvero: nessuno ne sentiva la mancanza, ma il governo spera che il buon augurio di longevità allunghi il brodino di Palazzo Chigi ben oltre il 2015 e, soprattutto, tolga finalmente di mano il mestolo al Cavaliere.

Ecco così il «chiaro segnale» di Giorgio Napolitano, che agli albori del secondo mandato (contrariamente al primo, così sobrio in fatto di nominati) trova il tempo utile per attingere alla prerogativa-principe del «regnante»: la nomina dei senatori a vita ex articolo 59, «personalità che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». E su questo non ci piove, considerati i vasti curricula di Carlo Rubbia, Renzo Piano, Claudio Abbado ed Elena Cattaneo. Personalità specchiate e rispettate a largo raggio con un unico filo che le accomuna, almeno in fieri: aver avuto (e spesso manifestato) anche ampie simpatie per la sinistra e comunque mai per la destra berlusconiana. Motivo per il quale - anche se Napolitano dichiara di «sentirsi alleggerito come quando si compiono adempimenti quale quello che mi toccava di compiere» nonché di essere convinto che i quattro «contribuiranno alla vita istituzionale in assoluta indipendenza da ogni condizionamento politico di parte» - è legittimo che dalle parti del Pdl (ma anche della Lega) si avverta gran puzza di bruciato. Affiorano ricordi mai sopiti, stampelle mai appese al chiodo, il governo unionista di Prodi attaccato ai respiratori di un manipolo di angusti vecchietti, indomiti e solerti, che incedevano a ogni voto di fiducia con passo garibaldino, salvare l'Italia «o si muore».
Le nomine del capo dello Stato suscitano dubbi e sospetti come di un rinnovato sgambetto a quella che doveva essere «pacificazione» e governo di «servizio». A quale servizio, si chiedono ora nel Pdl, saranno mai adibite tali altissime e riverite personalità? E perché nessuna sia almeno di taglio «neutro», non lo stesso Cav o Gianni Letta per carità, ma neppure un Pannella Marco (che pure sperava e meritava)?

E infine i tempi: come mai in questo frangente così periglioso, con sentenze che fioccano, e con risacche di senatori che minacciano di risalire la propria corrente partitica? I conti allora vengono da sé: con i quattro dell'Ave Giorgio l'aula di Palazzo Madama torna a essere affollata di 315 più sei senatori a vita (Monti e Ciampi i superstiti): totale 321, ovvero maggioranza di 161. Il Pd ne conta 108, che diventano 138 assieme a Scelta Civica (20) e Autonomie (10). Il misto, nel quale alloggeranno i nuovi patres conscripti assieme a Sel, passerà da 12 a 16. La somma fa 154. Cioè mancano ormai soltanto sette al traguardo dell'autosufficienza dal Pdl e, quindi, dal Cav e dai suoi guai. Con i sommovimenti in atto nei Cinquestelle, che ispirano le costanti sparate di Beppe Grillo (ormai solo la Lombardi e Crimi non capiscono che sono ad uso intimidatorio interno), con qualche rivoltoso all'interno del Pdl e comunque con un intero gruppo di Grandi Autonomie e Libertà (Gal) a disposizione, trovare i sette sembra un giochetto da ragazzo. Ciò che pare appropriato per Letta il Giovane, e forse anche per re Giorgio, anima biricchina e gran ciambellano delle patrie vicende, costi quel che costi.

Anzi, costino quel che costino: Palazzo Chigi val bene una mésse (di senatori).

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